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CINA

La disobbedienza di Hong Kong sfida Pechino

Hong Kong reclama la riforma democratica promessa per il 2017 e tradita dalla nuova legge promulgata da Pechino. La repressione poliziesca contro il primo sciopero studentesco ha innescato una protesta di massa, non-violenta, apertamente appoggiata anche dalla Chiesa, che ad Hong Kong è ancora libera.

Esteri 30_09_2014
Hong Kong, manifestanti e polizia

Tante altre rivolte, nell’ultimo decennio, sono incominciate proprio così: con l’illusione, da parte di un regime, di far sgomberare una manifestazione di piazza con una rapida azione repressiva della polizia. La repressione non riesce. E al posto di poche centinaia di manifestanti, nei giorni successivi le piazze di riempiono con decine di migliaia di persone in protesta.

Questi eventi, che abbiamo visto tante volte in Medio Oriente e nell’ex Urss, adesso stanno ripetendosi in Cina, in quello che è considerato il più “stabile” regime totalitario al mondo. Non proprio a Pechino, come ai tempi di Piazza Tienanmen, nel 1989, ma nella periferia sudorientale cinese, in una città molto particolare, con una propria autonomia economica e politica: Hong Kong. Nella ex colonia britannica sono ancora in piazza decine di migliaia di cittadini. Protestano contro il governo centrale cinese, chiedono la democrazia che era stata loro promessa per il 2017, ma che è stata tradita con l’approvazione dell’ultima legge su Hong Kong promulgata lo scorso 1 settembre dall’Assemblea Nazionale del Popolo cinese, il “parlamento” del regime comunista. Gli studenti di Hong Kong sono entrati in sciopero, disertando dalle lezioni, dal 22 al 29 settembre. Sabato e domenica scorsi la polizia ha tentato di sollevarli di peso dal loro sit-in di protesta e ha provocato decine di feriti. Questa azione «si è rivelata un boomerang per il governo – come spiega una fonte cattolica (anonima) di Asia News - Vedere gli agenti caricare dei giovanissimi, tutti con le mani alzate e tutti pacifici, ha sconvolto la popolazione. Che ora risponde con una maggiore partecipazione alle proteste pubbliche: al momento non solo la parte centrale di Hong Kong, ma anche gli snodi cruciali della penisola di Kowloon sono bloccati dai manifestanti». Agli studenti è arrivato l’appoggio di Occupy Central (Central è il nome della sede del governo locale, controllato dalla Cina), il cartello di opposizioni della società civile di Hong Kong. Ma la protesta è andata ben oltre Occupy e ora comprende anche decine di cittadini finora non considerati attivisti.

Le foto di ieri mostravano tappeti umani in mezzo agli sfavillanti grattacieli di Hong Kong. La città ribelle sta sfidando il regime di Pechino chiedendo una cosa inedita. Da Tienanmen (4 giugno 1989) ad oggi, infatti, in Cina non è mai più scoppiata alcuna rivolta per la democrazia. Sono insorti i contadini, decine di migliaia di volte, contro gli espropri ingiusti e contro fabbriche inquinanti. Sono insorti villaggi contro i funzionari corrotti. Sono insorti tibetani e uiguri per ottenere l’indipendenza nazionale. Il regime di Pechino pareva non temere tutti quei sommovimenti sociali. Alle rivolte etniche ha sempre risposto con una politica di contrapposizione etnica, facendo colonizzare sia il Turkestan Orientale (degli uiguri) che il Tibet da cinesi di etnia han. Alle rivolte contadine ha risposto con riforme mirate contro gli espropri più ingiusti, con punizioni esemplari di funzionari particolarmente malvisti e con una generale politica anti-corruzione, rilanciata soprattutto dall’ultimo presidente Xi Jinping. Ma questa di Hong Kong, appunto, è la prima insurrezione politica. È una sfida di tipo nuovo per il regime cinese. La posta in gioco è enorme, per Pechino. Concedere l’elezione democratica, a suffragio universale, del governatore di una singola città cinese (ancorché autonoma) può provocare un irresistibile effetto a catena in tutte le altre città, fino alla capitale Pechino.

La Chiesa si è espressa pubblicamente con un lungo documento a favore della democrazia: «Dato che una forma democratica di governo è essenziale per il benessere della società di Hong Kong, la Diocesi cattolica chiede al governo di iniziare senza ulteriori ritardi delle consultazioni formali sul modello appropriato di riforma elettorale, e invita con forza tutti coloro che partecipano alla vita politica del Territorio a entrare in queste consultazioni, mantenendo un dialogo onesto e sincero l'uno con l'altro e cercando in maniera attiva delle soluzioni che possano contribuire a eliminare tutte le radici profonde che hanno causato la disobbedienza civile, sino a ottenere il suffragio universale». La Diocesi di Hong Kong cita l’articolo 21 della Dichiarazione universale dei Diritti dell'Uomo delle Nazioni Unite: “La volontà popolare è il fondamento dell'autorità del governo” e soprattutto la Costituzione pastorale Gaudium et Spes del 7 dicembre 1965 elaborata durante il Concilio Vaticano II: “la scelta del regime politico e la nomina dei governanti sono lasciati alla libera decisione dei cittadini”. Lo stesso documento aggiunge: “È pienamente conforme alla natura umana che si trovino strutture giuridico-politiche che sempre meglio offrano a tutti i cittadini, senza alcuna discriminazione, la possibilità effettiva di partecipare liberamente e attivamente sia alla elaborazione dei fondamenti giuridici della comunità politica, sia al governo degli affari pubblici, sia alla determinazione del campo d'azione e dei limiti dei differenti organismi, sia alla elezione dei governanti” (n. 75).

La Diocesi si spinge oltre. Sempre in conformità alla Dottrina Sociale della Chiesa, giustifica la disobbedienza civile, nel caso il governo non rispetti i patti: «… se una richiesta persistente di correggere una seria ingiustizia non ottiene alcuna risposta positiva, o se il ricorso legale non è disponibile, o se le strutture politiche non democratiche non permettono l'accesso effettivo agli strumenti ordinari di riforma o di reclamo, allora possono emergere delle situazioni eccezionali in cui la "disobbedienza civile", entro certi limiti, è giustificata». Questa presa di posizione aggiunge anche una dimensione religiosa a uno scontro politico. La Chiesa chiede alla Cina più libertà di religione, in un Paese in cui la repressione della libertà di culto è in vigore dal 1949, prima con un ateismo assoluto e imposto dallo Stato, poi con il tentativo di sostituire la Chiesa cattolica romana con una Chiesa “patriottica” controllata dal Partito. Hong Kong, finora, è rimasta un’oasi più unica che rara di libertà religiosa in tutta la Cina. Potrebbe essere soppressa, se vincesse la Cina. O potrebbe dare un esempio di libertà agli altri 70 milioni di cinesi convertiti al cristianesimo, se dovesse vincere la piazza.

Il regime cinese, comunque, considerata la posta in gioco, non sembra affatto incline a compromessi. Finora le democrazie occidentali, soprattutto la Gran Bretagna per quanto riguarda Hong Kong, avevano sempre contato su un processo di riforma graduale della Cina, incoraggiato dal dialogo, dall’interscambio commerciale, dall’ammissione di Pechino ai grandi forum internazionali (soprattutto il Wto). Questo percorso avrebbe dovuto portare all’accettazione, da parte della Cina, di sempre maggiori dosi di democrazia e decentramento. Il presidente Xi Jinping, tuttavia, si dimostra chiuso ad ogni apertura sulle riforme politiche. Alle proteste britanniche per la repressione a Hong Kong, il regime cinese dimentica il principio del “uno Stato due sistemi”, ignora l’autonomia di cui gode la città-stato e invita Londra a evitare “ingerenze in affari interni”, come se Central fosse una piazza di una qualunque città cinese.

D’altra parte l’ascesa al potere di Xi Jinping è avvenuta all’insegna della stabilità interna del Partito e del Paese. Le “teste calde” neo-maoiste, scatenate nello zelo anti-corruzione, sono state epurate e processato, come nel caso di Bo Xilai e di sua moglie. I riformatori aperti alla democrazia non compaiono più all’orizzonte dai tempi dell’epurazione di Zhao Ziyang, espulso nel 1989, dopo Tienanmen e morto agli arresti domiciliari nel 2005. Difficile attendersi compromessi sulla riforma di Hong Kong. Più facile attendersi un lungo e doloroso braccio di ferro.