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NUOVI MEDIA

La dieta digitale? Ci vuole solo buon senso

Ritorna l'allarme sulla dipendenza dalle nuove tecnologie. Ma prima di demonizzare il Web riappropriamoci del tempo per riflettere.

Cultura 04_06_2011
dipendenza web Negli ultimi giorni anche la stampa italiana si è interessata al best seller statunitense The Digital Diet di Daniel Sieberg (Crown, New York 2011). L'autore, un popolare giornalista televisivo, constata che molti di noi passano ormai la maggior parte della loro giornata davanti a un computer o a uno smartphone, non solo perché ne hanno bisogno per il loro lavoro ma perché non riescono a staccarsene. Si tratta secondo Sieberg di una vera malattia, e il libro propone una "dieta a punti" per far dimagrire la massa di ore che dedichiamo a Internet e riprenderci la nostra vita che rischia di perdersi nel cyberspazio e in particolare su Facebook.

Le formule di Sieberg sono suggestive, ma non c'è molto di nuovo. In Italia conosciamo il problema almeno da quando è stato pubblicato l'importante studio Il tempo breve (Garzanti, Milano 2010) del giornalista economico Marco Niada. E la sociologia naturalmente conosce Vite di corsa (trad. it., il Mulino, Bologna 2009) del sociologo polacco Zygmunt Bauman – un autore citato anche da Benedetto XVI -, per non parlare di studi molto più antichi, precedenti a Internet ma pertinenti, su quella che il filosofo cattolico belga Marcel de Corte (1905-1994) chiamava l'accelerazione della storia.

Mentre storici e sociologi
dibattono sulla portata della grande rivoluzione culturale degli anni Sessanta e del 1968 – con il rapido mutamento dei costumi sessuali indotto dalla pillola e dalle leggi sull’aborto, la contestazione, la crisi nelle Chiese e comunità cristiane –, cui ha fatto cenno anche Benedetto XVI nella "Lettera ai cattolici dell’Irlanda" indagando sulle cause profonde della tragica diffusione della pedofilia, ecco che gli anni 2010 rischiano già di passare alla storia come quelli di una nuova rivoluzione. Questa rivoluzione parte dal deterioramento della risorsa fondamentale che permette agli uomini di vivere, di operare e anche di produrre beni e servizi: il tempo.

Mentre è possibile gestire la crisi di altre materie prime – il petrolio, il gas, perfino lo stesso denaro – la crisi del tempo è sostanzialmente ingestibile e comporta una vera rivoluzione antropologica. Lo stesso Benedetto XVI nel Messaggio per la Giornata mondiale della pace del 2009, una vera "pre-enciclica" rispetto alla "Caritas in veritate", trattando della crisi economica iniziata nel 2008 ne aveva identificato le radici in un rapporto distorto con il tempo e con il futuro. Attraverso prodotti finanziari che pretendevano di vendere ai risparmiatori di tutto il mondo il debito di persone cui era stato concesso con grande facilità e senza garanzie un mutuo per l’acquisto di un’abitazione, promettendo interessi mirabolanti, presunti geni della finanza ritenevano di avere trovato la formula magica per possedere il tempo, vendendo il futuro per arricchirsi nel presente. Ma il tempo si è vendicato, e l’intera costruzione è franata addosso agli apprendisti stregoni della finanza.

Ma che tipo di persone può avere concepito piani così evidentemente fallaci? Qui Sieberg ha ragione. Tutti abbiamo un po' di colpa per la crisi perché tutti abbiamo abbracciato una cultura che ha un rapporto distorto con il tempo. La nuova rivoluzione non è stata tanto quella di Internet, ma quella dei telefoni cellulari di nuova generazione, i cosiddetti smartphone, che sono diventati sempre di più computer portatili in costante collegamento con il Web e la posta elettronica. Ci sono manager che fissano costantemente il loro Blackberry, qualche volta – è successo davvero – facendosi travolgere dalle auto mentre attraversano la strada senza smettere di rispondere alle mail, e i politici che durante le conversazioni osservano i loro interlocutori con un occhio solo perché l’altro è rivolto al “telefono intelligente”.

La vita è radicalmente cambiata non con l’avvento del Web ma con quello prima del Blackberry – un attrezzo per manager e professionisti – e poi dell’iPhone, che è per tutti e specialmente per i giovani. La divisione del tempo fra lavoro, famiglia, studio, vacanza è finita. Tutti si aspettano che un giornalista o un imprenditore sia collegato alla posta elettronica e alle notizie diciotto ore al giorno – ma qualcuno è disposto ormai a farsi interrompere anche le ore di sonno – , e sarebbe inconcepibile che una persona che voglia farsi considerare affidabile non risponda a un messaggio entro qualche minuto o al massimo qualche ora. O che un giovane non sia più o meno sempre reperibile su Facebook o sullo smartphone. L’uomo – e il giovane – del 2011 che porta con sé il Blackberry o l’iPhone come una protesi è diverso in un modo fondamentale dall’uomo di dieci o vent’anni prima. E i sociologi non si sono ancora occupati dell'iPad e dei suoi fratelli, che complicano ulteriormente il quadro.

Tutti a dieta digitale con Sieberg, allora, o pronti a buttare gli iPhone nel cestino? Calma. Sappiamo pure che gli smartphone, i social network, le reti sempre più veloci hanno risolto molti problemi e perfino salvato delle vite. Impegnato in un progetto di costruzione di scuole nelle aree più remote e difficili dell’Afghanistan, nel suo libro citato Niada spiega che i risultati sono cominciati ad arrivare solo quando gli Stati Uniti hanno garantito la copertura dei cellulari e di Internet in gran parte dell’Afghanistan, così permettendo ai testi e alle lezioni di arrivare immediatamente online o via telefono nei villaggi, senza dovere passare per lunghi viaggi a piedi e attraversare valichi infestati dai talebani. Nessun attacco indiscriminato alle nuove tecnologie, dunque.

Ma il successo mondiale
del libro di Sieberg è un richiamo a problemi reali. Il primo è stato studiato da psicologi e psichiatri già da molti anni: il rischio di una dipendenza da Internet e dai cellulari che ricorda la dipendenza dalla droga e che isola chi ne è vittima, bambini compresi, dal mondo reale. Il secondo problema è al centro dello studio sociologico di Internet da molti anni: si tratta del cosiddetto “information overload” (sovraccarico d’informazioni). Grazie a, o per colpa di, Internet riceviamo più informazioni di quante siamo capaci di assorbire, vagliare e organizzare e alla fine entriamo in crisi. Si aggiungono due ulteriori elementi: la crisi della memoria – chi vive di Google e Wikipedia ha sempre meno memoria, perché è abituato a cercare le informazioni sul Web e non tra i propri ricordi –, e la “morte dell’attenzione”. Il nostro tempo di attenzione si assottiglia sempre di più, e senza attenzione – come insegnavano già i monaci del Medioevo – non può nascere la riflessione e neppure la preghiera.

Le riflessioni laiche di Sieberg e di altri ricordano quanto scriveva profeticamente nel 2002 il beato Giovanni Paolo II (1920-2005) nel suo Messaggio per la XXXVI Giornata delle comunicazioni sociali: «La caratteristica essenziale di Internet consiste nel fornire un flusso quasi infinito di informazioni, molte delle quali durano solo un attimo (…). Internet ridefinisce in modo radicale il rapporto psicologico di una persona con lo spazio e con il tempo. Attrae l'attenzione ciò che è tangibile, utile, subito disponibile. Può venire a mancare lo stimolo a un pensiero e a una riflessione più profondi, mentre gli esseri umani hanno bisogno vitale di tempo e di tranquillità interiore per ponderare ed esaminare la vita e i suoi misteri e per acquisire gradualmente un maturo dominio di sé e del mondo che li circonda».

Anche il beato Giovanni Paolo II non esortava a fuggire da Internet. Chiedeva piuttosto di evangelizzarlo: «Internet permette a miliardi di immagini di apparire su milioni di schermi in tutto il mondo. Da questa galassia di immagini e suoni, emergerà il volto di Cristo? Si udirà la sua voce? Perché solo quando si vedrà il Suo Volto e si udirà la Sua voce, il mondo conoscerà la “buona notizia” della nostra redenzione. Questo è il fine dell'evangelizzazione e questo farà di Internet uno spazio umano autentico, perché se non c'è spazio per Cristo, non c'è spazio per l'uomo». Più che di dieta, si tratta di buon senso. Ma di questi tempi il buon senso è diventato molto difficile da trovare fuori della fede e della preghiera.