PAPA
La cultura è l'arte del buon uso del tempo
«Non abbiamo bisogno di un dio generico, indefinito, ma del Dio vivo e vero, che apra (...) ad una prospettiva di ferma e sicura speranza»,
Attualità
16_12_2011
Nella serata di giovedì 15 dicembre Benedetto XVI ha celebrato i vespri nella Basilica Vaticana con gli studenti universitari di Roma, cui ha proposto una meditazione sulla relazione fra cultura e attesa di Dio introdotta dalle parole di san Giacomo: «Siate costanti, fratelli, fino alla venuta del Signore» (Gc 5,7). «Con queste parole – ha detto il Papa – l’Apostolo Giacomo ci indica l’atteggiamento interiore per prepararci ad ascoltare e accogliere di nuovo l’annuncio della nascita del Redentore nella grotta di Betlemme, mistero ineffabile di luce, di amore e di grazia».
La lettera di san Giacomo ha a che fare precisamente con la cultura, parola che etimologicamente significa «coltivazione». E infatti san Giacomo c’invita a imitare l’agricoltore, che «aspetta con costanza il prezioso frutto della terra» (Gc 5,7). Un testo antico, che non ha più molto da dire in pieno XXI secolo? «A voi che vivete nel cuore dell’ambiente culturale e sociale del nostro tempo, che sperimentate le nuove e sempre più raffinate tecnologie, che siete protagonisti di un dinamismo storico che talvolta sembra travolgente – ammette il Papa –, l’invito dell’Apostolo può sembrare anacronistico, quasi un invito ad uscire dalla storia, a non desiderare di vedere i frutti del vostro lavoro, della vostra ricerca».
Eppure, leggendo più attentamente il testo biblico, ci si può chiedere: «è proprio così? L’invito all’attesa di Dio è proprio fuori tempo? E ancora più radicalmente potremmo chiederci: cosa significa per me il Natale; è davvero importante per la mia esistenza, per la costruzione della società? Sono molte, nella nostra epoca, le persone, specialmente quelle che voi incontrate nelle aule universitarie, che danno voce alla domanda se dobbiamo attendere qualcosa o qualcuno; se dobbiamo attendere un altro messia, un altro dio; se vale la pena di fidarci di quel Bambino che nella notte di Natale troveremo nella mangiatoia tra Maria e Giuseppe».
La coltivazione della terra, dunque metaforicamente la cultura, richiede molta pazienza. «L’esortazione dell’Apostolo alla paziente costanza, che nel nostro tempo potrebbe lasciare un po’ perplessi, è in realtà la via per accogliere in profondità la questione di Dio, il senso che ha nella vita e nella storia, perché proprio nella pazienza, nella fedeltà e nella costanza della ricerca di Dio, dell’apertura a Lui, Egli rivela il suo Volto». L’impazienza e la frenesia sono caratteristiche del nostro tempo, ma sono anche ostacoli a una pacata formulazione della questione su Dio.
«Non abbiamo bisogno di un dio generico, indefinito, ma del Dio vivo e vero, che apra l’orizzonte del futuro dell’uomo ad una prospettiva di ferma e sicura speranza, una speranza ricca di eternità e che permetta di affrontare con coraggio il presente in tutti i suoi aspetti». Se però non possiamo accontentarci di un Dio generico, dobbiamo porci anche altre domande: «dove trova la mia ricerca il vero Volto di questo Dio? O meglio ancora: dove Dio stesso mi viene incontro mostrandomi il suo Volto, rivelandomi il suo mistero, entrando nella mia storia?».
Comprendiamo meglio allora la parola di san Giacomo «Siate costanti, fratelli, fino alla venuta del Signore». In realtà, questa parola «ci ricorda che la certezza della grande speranza del mondo ci è donata e che non siamo soli e non siamo noi da soli a costruire la storia. Dio non è lontano dall’uomo, ma si è chinato su di lui e si è fatto carne (Gv 1,14), perché l’uomo comprenda dove risiede il solido fondamento di tutto, il compimento delle sue aspirazioni più profonde: in Cristo (cfr Esortazione apostolica postsinodale Verbum Domini, 10)».
Il richiamo alla pazienza, qui, non è marginale ma costitutivo. «La pazienza è la virtù di coloro che si affidano a questa presenza nella storia, che non si lasciano vincere dalla tentazione di riporre tutta la speranza nell’immediato, in prospettive puramente orizzontali, in progetti tecnicamente perfetti, ma lontani dalla realtà più profonda, quella che dona la dignità più alta alla persona umana: la dimensione trascendente, l’essere creatura ad immagine e somiglianza di Dio, il portare nel cuore il desiderio di elevarsi a Lui».
E comprendiamo anche il senso profondo del richiamo di san Giacomo all’agricoltura, che in un certo senso è la prima forma di cultura: «Guardate l’agricoltore: egli aspetta con costanza» (5,7). La cultura, in fondo, è l’arte del buon uso del tempo. Lo stesso «Dio, nell’incarnazione del Verbo, nell’incarnazione del suo Figlio, ha sperimentato il tempo dell’uomo, della sua crescita, del suo farsi nella storia. Quel Bambino è il segno della pazienza di Dio, che per primo è paziente, costante, fedele al suo amore verso di noi; Lui è il vero “agricoltore” della storia, che sa attendere». L’arte dell’attesa è difficile, e spesso gli uomini sbagliano. «Quante volte gli uomini hanno tentato di costruire il mondo da soli, senza o contro Dio! Il risultato è segnato dal dramma di ideologie che, alla fine, si sono dimostrate contro l’uomo e la sua dignità profonda».
La pazienza della storia ha a che fare con la prudenza, ma non coincide con questa virtù. «La costanza paziente nella costruzione della storia, sia a livello personale che comunitario, non si identifica con la tradizionale virtù della prudenza, di cui certamente si ha bisogno, ma è qualcosa di più grande e più complesso. Essere costanti e pazienti significa imparare a costruire la storia insieme con Dio, perché solo edificando su di Lui e con Lui la costruzione è ben fondata, non strumentalizzata per fini ideologici, ma veramente degna dell’uomo».
L’Avvento è un tempo opportuno per riflettere sul nostro rapporto con il tempo e con la storia, in quanto «ci ricorda che la venuta del Signore è vicina, anzi il Signore è con noi ed è possibile costruire con Lui. Nella grotta di Betlemme la solitudine dell’uomo è vinta, la nostra esistenza non è più abbandonata alle forze impersonali dei processi naturali e storici, la nostra casa può essere costruita sulla roccia: noi possiamo progettare la nostra storia, la storia dell’umanità non nell’utopia ma nella certezza che il Dio di Gesù Cristo è presente e ci accompagna».
L’università dovrebbe essere il luogo dov’è possibile «coniugare in modo serio e appassionato fede e cultura». Non dovrebbe essere un luogo che esclude la domanda religiosa per un partito preso ideologico. «Cercare il Volto di Dio è l’aspirazione profonda del nostro cuore ed è anche la risposta alla questione fondamentale che va emergendo sempre di nuovo anche nella società contemporanea». Dall’incontro con il Bambino di Betlemme, anche nelle università – dove inizia a Roma un pellegrinaggio dell’icona di Maria Sedes Sapientiae, che sarà esposta in varie sedi accademiche –, «nessuno può sentirsi escluso, nessuno deve dubitare della possibilità dell’incontro, perché Lui è il Dio paziente e fedele, che sa attendere e rispettare la nostra libertà».