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APPROPRAZIONE INDEBITA

La crisi con Londra isola Ahmadinejad e fa il gioco di Khamenei

A Teheran l’odio anti-inglese
si mischia con i calcoli politici.
Volano i coltelli fra la Guida Suprema, l'ayatollah Khamenei, e il presidente della repubblica islamica, Mahmoud Ahmadinejad.

 

Rispondere alle pressioni internazionali con le provocazioni è una costante della politica estera iraniana, ma stavolta il gioco è sfuggito di mano e l’ingiuria al “piccolo satana” britannico si è trasformata in una crisi bilaterale che aumenta la solitudine di Teheran. Quella solitudine che il presidente, Mahmoud Ahmadinejad, è tentato di spezzare, in opposizione alla Guida suprema Khamenei, sempre più impegnato a disfare le trame presidenziali. Il giorno dopo gli attacchi ai compound inglesi, mentre i diplomatici abbandonavano la capitale iraniana e la Norvegia chiudeva, per precauzione, la sua rappresentanza a Teheran – altri paesi, fra cui l’italia, stanno valutando la chiusura –   il ministro degli Esteri inglese William Hague ha annunciato la serrata “immediata” dell’ambasciata iraniana a Londra e l’espulsione del personale entro 48 ore.“La presa dell’ambasciata britannica è avvenuta con 32 anni di ritardo, oggi qualsiasi iraniano dovrebbe sapere che ciò che è accaduto è nell’interesse dell’Iran”, ha commentato un comandante dei basiji.
Tra le tante macchinazioni ascritte dalla Guida Suprema alla Gran Bretagna c’è l’accusa di aver tirato le fila delle manifestazioni contro la rielezione di Ahmadinejad nel giugno del 2009.

Recentemente le autorità iraniane sono state informate che l’ex ambasciatore iraniano in Giordania, Nasratollah Tajik, agli arresti domiciliari in Inghilterra, potrebbe presto essere estradato negli Stati Uniti. Secondo le indiscrezioni Tajik conosce molti misteri che Khamenei vorrebbe rimanessero tali. Ma in Iran da duecento anni basta un’ombra per puntare il dito contro gli inglesi: è un riflesso condizionato, “se inciampi in un sasso, stai sicuro che ce l’ha messo un inglese”, recita un detto, un’ossessione che rischia di ritorcersi contro il presidente, dicono al Foglio fonti del ministero degli Esteri iraniano, dove l’umore è plumbeo. L’assalto e la risposta di Hague hanno di fatto chiuso ogni spiraglio alle ambigue aperture nucleari del presidente Ahmadinejad, alla vigilia di una riunione dei ministri degli esteri dell’Unione europea in cui potrebbero essere concordate ulteriori misure punitive contro Teheran. “Siamo sotto attacco – ha detto due settimane fa Ahmadinejad – questa è la più grande offensiva della storia contro l’economia iraniana”. Mosca e Pechino difendono la trincea iraniana al Consiglio di sicurezza, ma Canada, Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna non mollano la presa ed è stato il cancelliere dello Scacchiere, George Osborne, a ordinare per primo la sospensione di tutte le transazioni tra la Banca centrale iraniana e gli istituti del Regno Unito.

Nel frattempo in Iran per la seconda volta in due settimane c’è stata un’esplosione che, a seconda delle fonti, andrebbe imputata all’eccessivo entusiasmo militare dei pasdaran o alla rottura di uno scaldabagno. La pista “esterna”, un sabotaggio israeliano o americano, fa sentire il regime più fragile, ma altrettanto inquietanti sono le ipotesi di “traditori di regime” o “scienziati dissidenti assoldati dall’opposizione”. Nella cacofonia di voci in cui si dibatte Teheran, l’establishment è ormai un gentlemen’s club in cui sono saltate tutte le regole. Formalmente il paese si regge sulla coabitazione della troika composta da Ahmadinejad e dai due fratelli Larijani – Ali a capo del Parlamento e Sadegh della Giustizia – ma anche quella ormai non conta più.

La visione post presidenziale del leader
A Teheran ognuno disfa la tela del nemico e volano coltelli sotto forma di dossier e arresti, veri o presunti. “Il presidente sta soffrendo: è come se una spina gli si fosse conficcata in gola. Non può levarla e non può ingoiare”, ha scritto Ali Akbar Javanfekr, consigliere di Ahmadinejad e direttore dell’Irna. La partita non è chiusa, ma giorno dopo giorno rotolano le teste dei fedelissimi del presidente; Khamenei pensa alle elezioni del 2012, rinserra i ranghi e guarda al giorno in cui sarà per tutti un imam. Il 16 ottobre la Guida suprema ha vaticinato la fine del sistema presidenziale. Il suo governo ideale è il Beit, l’ufficio del leader supremo, dove uomini come Ali Ashgar Hejazi, Vahid Haghani, Mohammad Mohammadi-Golpayegani, Ali Akbar Velayati, Yahya Rahim Safavi, Mohammed Ali Aziz Jafari e Qassem Soleimani amministrano il paese quasi per decreto. Ahmadinejad ha un’unica freccia al suo arco: ultimare la sua trasformazione da saladino panislamico a leader nazionalista, ma è un’operazione ardita persino per il miglior illusionista di Teheran e non si intravedono al momento alleati utili alla causa.

Da Il Foglio del 1 dicembre 2011