La coscienza per Newman? Coincide con la legge di Dio
Il tema della coscienza in Newman è stato molto equivocato. In realtà il grande santo inglese radica la coscienza nella legge naturale, una critica radicale sia alla coscienza individualisticamente intesa, autoreferenziale, sia alla "coscienza di massa" caratteristica dei regimi totalitari.
L’idea contemporanea di coscienza – se ancora ve n’è una – oscilla tra due polarità, che sono l’esito inevitabile dell’espulsione di Dio dall’orizzonte dell’uomo e della società.
Da una parte la coscienza viene compresa come una mera coerenza con se stessi. Il diritto della coscienza si traduce nel diritto a dire, fare, scrivere quanto si ritiene coerente con il proprio io, con quanto si pensa, si sente, si crede, a prescindere da cosa si pensi, si senta, si creda. Non esiste un criterio distinto dalla coerenza con se stessi ed in ultima analisi il diritto della coscienza si risolve in un diritto alla sincerità, o un diritto alla propria ostinazione.
Questa comprensione della coscienza viene generalmente vista come la risposta contro la “coscienza di massa” caratteristica dei regimi totalitari. La coscienza dell’uomo è lo Stato, le sue leggi, o semplicemente i desiderata del leader di turno. Questa coincidenza della coscienza con il potere si ottiene con più successo tramite la propaganda – che quando è “ben fatta”, non appare mai come tale -, per i renitenti, con l’estorsione e la forza. In questo quadro, la coscienza viene privata della propria autonomia, azzerata nella sua sovranità, per conformarsi al pensiero unico opportunamente “proposto”.
In verità, questa posizione tipicamente liberale ha una genesi autonoma rispetto alla reazione ai totalitarismi. In ogni caso, occorre rilevare che la prima posizione non è la risoluzione dei problemi oggettivi generati dalla seconda, ma un problema nel problema. Anzi, come vedremo, la coscienza liberale è il mezzo ideale per condurre all’azzeramento della coscienza.
Newman non aveva vissuto i totalitarismi del Novecento, ma aveva comunque ben chiara quell’idea secolare della coscienza, che la considera come una dimensione creativa ed autoreferenziale. Nella Lettera al duca di Norfolk troviamo la sostanza della posizione di Newman sulla coscienza e non è affatto, come molti hanno superficialmente ritenuto, un inno alla coscienza liberal-secolare.
«La Legge divina è dunque la regola della verità etica; il criterio del bene e del male; un’autorità sovrana, irrevocabile, assoluta, davanti agli uomini e davanti agli angeli». La legge eterna partecipata all’uomo si chiama legge naturale, e questa legge «in quanto è percepita dalla mente dei singoli uomini, si chiama “coscienza”». Si tratta di brevi ma dense affermazioni, che rompono subito il guscio dell’autoreferenzialità della coscienza e che fondano la ragione del dovere di ogni uomo di obbedire alla propria coscienza, proprio nel fatto che la coscienza “media” la legge di Dio. È la coscienza come voce o vicaria di Dio, e non come creazione dell’uomo, a vincolare l’uomo ad agire secondo i suoi dettami: «La coscienza non è un egoismo lungimirante, né il desiderio di essere coerenti con se stessi, bensì la messaggera di Colui, il quale, sia nel mondo della natura sia in quello della grazia, ci parla dietro un velo e ci ammaestra e ci governa per mezzo dei suoi rappresentanti».
Le tensioni tra la legge di Dio e la coscienza nascono per due ragioni. Ad un livello che potremmo considerare “pratico”, la coscienza può entrare in conflitto con la legge divina a causa della condizione decaduta dell’uomo. Ne La grammatica dell’assenso, Newman riconosce realisticamente che la coscienza, più che essere la voce sonante di Dio, è «l’eco di una voce»; un’eco fragile, «tanto delicata, tanto facilmente confusa, offuscata, distorta», facilmente preda delle passioni, ed altamente impressionabile dall’educazione, in definitiva «tanto traballante nel suo percorso».
Da questo realismo discende l’imperativo di formare la coscienza alle fonti della verità, così come di lavorare per domare le passioni e liberarsi così dai loro funesti influssi. Ma questo non basta se l’uomo non si apre alla dimensione soprannaturale, all’aiuto cioè della Rivelazione divina, che dissipa le tenebre dell’ignoranza e dell’incertezza, al soccorso dei mezzi della grazia e della preghiera, che risanano giorno dopo giorno l’uomo dalle sue più profonde infermità.
Ma è qui che emerge il secondo radicale problema, frutto diretto della secolarizzazione. «Quando gli uomini si appellano ai diritti della coscienza, - scrive Newman nella Lettera - non intendono assolutamente i diritti del Creatore, né il dovere che, tanto nel pensiero come nell’azione, la creatura ha verso di Lui. Essi intendono il diritto di pensare, parlare, scrivere e agire secondo il proprio giudizio e il proprio umore senza darsi alcun pensiero di Dio».
Il primo e radicale tradimento della coscienza è richiuderla in se stessa, snaturarla dall’essere la vicaria del Dio onnisciente ed onnipotente. La coscienza è realmente sovrana, ed ha diritto di essere obbedita, ma non è autonoma. È sovrana precisamente perché non è autonoma, in quanto vicaria di Dio in ciascun uomo e non dio essa stessa.
Abbiamo alluso al fatto che coscienza liberale e coscienza totalitaria sono solo apparentemente l’una l’opposto dell’altra. L’aspetto comune ad entrambe è l’esclusione del fondamento della coscienza in Dio. Non è solo una questione teorica. Nel momento in cui viene meno questo riferimento universale e fondativo, si aprono solo due strade: quella di un riferimento altro, che è umano e fallibile, e più spesso scientemente iniquo e ingannatore; oppure quella della massima insindacabile che ognuno risponde solo a se stesso.
Nel concreto però accade che l’affermazione della coscienza liberale diventa lo strumento della coscienza totalitaria. Quella che Newman chiama la «prerogativa di ogni inglese, di essere cioè padrone di se stesso in ogni cosa, di professare quello che gli piace senza dover avere il beneplacito di chicchessia», non è il baluardo contro il totalitarismo, ma è una sua forma. Svincolata dal vero e dal bene, dal dovere di cercare la voce di Dio, la coscienza, data la sua condizione di fragilità, diviene con grande facilità preda del “pensiero unico”. La coscienza abilmente deformata, nella logica dell’autoreferenzialità - non obbedire a nessuno, se non a se stessi! - diviene così il più micidiale mezzo di chi impone la coscienza totalitaria. Micidiale, perché non permette di avvertire tensione tra la coscienza totalitaria e la coscienza individuale, ma porta gli uomini a divenire schiavi, mentre credono con fierezza di obbedire solo a se stessi.
È sufficiente un’abile e pervasiva comunicazione, e il “diritto della coscienza” diviene così la via per la cessazione dei veri diritti. Dimenticando che «la coscienza ha diritti perché ha doveri», ignorando «il Legislatore e Giudice», rivendicando l’indipendenza dagli «obblighi che non si vedono», accade che il diritto e la libertà della coscienza finiscono con lo «sbarazzarsi della coscienza».