La Convention Democratica e le tre trappole per Kamala
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Al via la Convention Nazionale Democratica, a Chicago, che consacra definitivamente Kamala Harris candidata per la Casa Bianca. Non ha la vittoria in tasca e deve stare attenta a trappole elettorali anche a sinistra.
Al via, da ieri, la Convention Nazionale Democratica, a Chicago, che consacra definitivamente Kamala Harris la candidata del Partito Democratico per la Casa Bianca. “Forward” (avanti) è il suo motto, seguito ideale di “Hope” (speranza), di Obama. E i poster, con la stessa grafica che ricorda quella delle elezioni degli anni ’30, sembrano usciti pari-pari dalla campagna di Obama del 2008. Kamala Harris, dunque, salta a piè pari l’esperienza Biden e si riallaccia al primo presidente nero. Lei aspira ad essere la prima presidente donna (e non-bianca), rivolgendosi alle stesse fasce di elettorato che 16 anni fa votarono Obama.
Kamala for President era uno scenario assolutamente imprevisto e imprevedibile fino al 21 luglio scorso ed oggi appare invece scontato. Il primo discorso è stato tenuto da Joe Biden, che passa il testimone alla sua vice.
Il Partito Democratico, per tutto il mese di luglio, era diviso e depresso, con un candidato perdente, Joe Biden alla rielezione, abbastanza forte da imporsi e rifiutare di farsi da parte. Kamala Harris non è un candidato più forte di Biden. I sondaggi, fino alla fine del 2023, rilevavano che fosse addirittura più impopolare del presidente in carica, uno dei peggiori risultati di sempre di un vicepresidente. La stessa stampa di sinistra suggeriva a Biden, in caso di corsa per la rielezione, di cambiare vicepresidente. In queste ultime settimane di agosto, invece, la realtà rilevata dai sondaggi pare essersi ribaltata. Kamala Harris risulta in vantaggio, a livello nazionale, rispetto a Trump. Le convention dei partiti sono dei “momenti di gloria” per il candidato. Come dopo quella repubblicana a Milwaukee Trump è salito enormemente nei sondaggi, così ci si attende anche per la Harris nella prossima settimana.
Stando ai commenti dei principali quotidiani, la sua parrebbe ormai una strada in discesa. A leggere più attentamente i numeri, però, non lo è ancora. Nella media dei sondaggi di Real Clear Politics, infatti, a livello nazionale il distacco è inferiore ai 2 punti percentuali. Risulta in testa anche negli Stati-chiave del Michigan e del Wisconsin, ma arranca in Pennsylvania ed è decisamente sotto Trump in Arizona, Georgia e Nevada. Quindi tutto ancora da giocare, la campagna elettorale entrerà nel vivo solo a settembre.
Lungi dall’avere la vittoria in tasca, la Harris deve stare attenta ad almeno tre trappole che l’attendono anche a sinistra. La prima è già scattata a Chicago, nel giorno dell’inaugurazione della Convention: manifestazioni pro-Gaza a lungo preparate dai militanti della sinistra democratica, dei collettivi studenteschi e dei musulmani americani, componenti sempre più influenti nel Partito Democratico. Tanto influenti da condizionare la scelta del candidato vicepresidente: avrebbe dovuto essere Josh Shapiro, invece la scelta è ricaduta su Tim Walz, poiché il primo, ebreo e sionista, era inviso all’elettorato pro-Palestina.
Ma l’opinione pubblica americana, al di fuori dei militanti e degli studenti, è pronta ad una svolta epocale? Il Partito Democratico appoggia Israele dagli anni di John F. Kennedy, dunque da più di mezzo secolo. E per questo ha i voti, non solo della comunità ebraica, ma anche di una maggioranza silenziosa filo-israeliana che negli Usa è trasversale. Passare da una politica estera filo-sionista ad una filo-araba può essere un passo più lungo della gamba, in termini elettorali. E non è detto che sia salutare per gli stessi interessi nazionali americani.
La seconda trappola è quella economica. Oltre a Biden, una relatrice d’eccezione della prima giornata di Convention è stata Alexandria Ocasio Cortez, esponente di punta dell’estrema sinistra americana. Per conquistare i voti della “rust belt” (le regioni danneggiate dalla deindustrializzazione e dalle delocalizzazioni), il programma economico deve contenere sempre più massicce dosi di socialismo. E in effetti, venerdì 16, Kamala Harris ha presentato un’agenda molto più radicale rispetto a quella della “Bidenomics”: lauti sussidi per chi compra la prima casa, credito fiscale per il primo figlio, calmiere sui prezzi dei beni alimentari di prima necessità, misure anche contro il caro-prezzi della sanità, “punizioni” per le aziende che speculano sul caro vita. Il tutto, da notare, per curare gli effetti di un’inflazione che si è gonfiata nei quattro anni di amministrazione Biden-Harris.
Tuttavia anche un programma economico così assistenzialista ha provocato già i suoi effetti collaterali. Non solo è stato attaccato da Trump (come c’era da attendersi) che l’ha paragonato alla politica economica di Maduro in Venezuela. Ma è stato criticato anche “in casa”, dalla stampa amica, con articoli al vetriolo sul Washington Post, in cui si usa l’aggettivo “populismo”, solitamente riservato a Donald Trump. Un programma fondato su spesa a debito per sussidi, sconti fiscali e, quel che è peggio, anche calmieri sui prezzi, rischia di essere bocciato anche dagli stessi finanziatori dei Democratici. E in ogni caso farebbe fuggire tutti quegli elettori indipendenti che tuttora guardano all’economia come principale fattore di scelta di un candidato.
Infine la terza trappola è quella di considerare i fattori sessuale e razziale come determinanti. Probabilmente non lo sono più, almeno non come lo erano nel 2020. In un sondaggio del settembre 2023, alla vigilia di questa campagna, il Pew Research Center registrava che solo il 18% degli americani considerasse “molto importante” avere una presidente donna, mentre un altro 18% lo trovava “abbastanza importante” e il 64% “irrilevante”.