La Cina è ancora legata al comunismo di Mao
Ascoltando il discorso di Xi Jinping a Davos si potrebbe anche pensare che la Cina abbia lasciato alle spalle il suo passato comunista e sia ormai una grande nazione pronta ad abbracciare la globalizzazione, il mercato libero, i diritti umani. La realtà è ben diversa. Due notizie lo dimostrano.
Ascoltando il discorso di Xi Jinping a Davos, in occasione del World Economic Forum, si potrebbe anche pensare che la Cina abbia lasciato alle spalle il suo passato comunista e sia ormai una grande nazione pronta ad abbracciare la globalizzazione, il mercato libero, i diritti umani. Due notizie di cronaca, di questa settimana, permettono però di capire quanta distanza ci sia dalle parole ai fatti. La Cina è ancora un paese comunista, legato alla pesante eredità di Mao Zedong.
La prima notizia riguarda la falsificazione dei dati sulla crescita economica nella provincia di Liaoning. Si tratta di una pratica che era molto diffusa nel mondo comunista, tanto è vero che prende il nome dall’ex presidente sovietico Leonid Breznev: la “statistica brezneviana”. Far apparire una crescita che non c’è, per dimostrare che il progresso socialista è autentico e superiore a quello capitalista. In Cina, l’Ufficio nazionale delle statistiche, lo scorso dicembre, ha diffidato i governatori delle province dal pubblicare dati falsi. E puntualmente il primo falso è spuntato fuori. Le autorità del Lianoning sono state riprese dal governo centrale, perché in un sistema aperto al mercato (e non più chiuso nell’autarchia) almeno un minimo di responsabilità è stato introdotto. Hanno ammesso di aver falsificato i dati dal 2011 al 2014, compresi quelli riguardanti le entrate fiscali. Le cifre ufficiali parlavano di una crescita del 23% e oltre del Pil locale. In realtà, la provincia, una delle più industrializzate sin dai tempi di Mao, è in crisi già da anni. I dati pubblicati sul Quotidiano del Popolo, servivano a nascondere le difficoltà e difendere il prestigio dei dirigenti locali nei ranghi del partito. Oggi la Cina deve pubblicare i dati macroeconomici su scala nazionale, compreso quello sulla crescita del Pil nel 2016. Ma a questo punto è lecito chiedersi quanto rifletta la realtà.
La seconda notizia, apparentemente molto differente, riguarda il culto della personalità di Mao Zedong, il dittatore più sanguinario del Novecento, fondatore della Repubblica Popolare. Come abbiamo già avuto modo di vedere, per l’anniversario del suo compleanno, lo scorso 26 dicembre, in un regime che vieta (o quantomeno scoraggia vivamente) la celebrazione del Natale, il “grande timoniere” è stato venerato come fosse una divinità buddista, inclusa l’offerta di voti e sacrifici alle sue statue dorate. Ma non si tratta solo di folklore locale, tantomeno spontaneo. La dimostrazione è l’epurazione di un professore universitario, Deng Xiaochao, che ha osato criticare proprio il culto della personalità di Mao. Sul suo profilo di Weibo, il social network cinese, il 26 dicembre aveva scritto: “Essere a capo di un impero richiede abilità, devi cambiare le tue vesti gialle (vesti imperiali, usate per rivestire le statue di Mao, ndr) in capi logori e rattoppati, cambiare l’unzione nella celebrazione di un neonato, trasformare concubine in soldatesse da intrattenimento. Devi chiamare regnanti per diritto compagni rivoluzionari e trasformare l’editto imperiale in un supremo regolamento. Ma non farlo con troppa onestà.” Un post ironico e senza nomi. Ma chi doveva capire ha capito e il professore, che insegnava arte alla Shandong Jianzhu University, è stato licenziato. Prima di giungere al provvedimento, proprio come ai tempi della Rivoluzione Culturale, gruppi di studenti maoisti hanno manifestato il loro sdegno di fronte alla sede dell’ateneo, mentre la sezione locale del Partito Comunista contestava al professore di aver profferito “false affermazioni”. La storiografia ufficiale ammette errori per il “30% del pensiero” di Mao Zedong. Fra questi ci sono anche la Rivoluzione Culturale e il fallimento del Grande Balzo Avanti, la politica di industrializzazione delle campagne che ha causato la più grande e letale carestia del Novecento. Sono questi gli aspetti contestati anche dal professor Deng, ma a quanto pare i tempi non sono ancora maturi per una critica aperta.
Queste due notizie possono essere lette nell’ottica del bicchiere mezzo pieno. Ai tempi di Mao, infatti, le statistiche brezneviane delle province e del governo centrale sarebbero state deliberatamente falsificate e nascoste. Oggi hanno problemi i governatori che nascondono la loro crisi locale. Ai tempi di Mao sarebbero stati immediatamente condannati a morte i controllori. Ai tempi di Mao, il professor Deng sarebbe stato condannato a morte, o linciato da zelanti guardie rosse. Oggi viene solamente licenziato. La tendenza sembrerebbe portare a un’apertura graduale. Ma è purtroppo possibile il contrario. Human Rights Watch rileva nel 2016 un aumento della repressione, il peggiore dai tempi del massacro di piazza Tienanmen (1989). E il professor Song Yongyi, che non insegna in Cina ma alla California State University, è libero di chiedersi se l’ultimo presidente Xi Jinping intenda seguire le orme di Mao: “Credo che coltivi i suoi stessi sogni, personalmente. Che poi possa realizzarli nella pratica è un altro paio di maniche. In termini di sistema politico, l’importante è capire quanto voglia stabilire una dittatura sotto una singola persona o un sistema di comando collettivo. Sta forse puntando ad una leadership suprema, come quella di Mao durante la Rivoluzione Culturale?”