La Chiesa non censuri san Paolo, ma annunci la via per la salvezza
Un testo del compianto cardinal Biffi ricorda che il cristiano deve sempre distinguere il rispetto dovuto alle persone dal rigetto di ogni “ideologia dell’omosessualità”. La Lettera ai Romani (1,21-32) insegna che i rapporti contronatura e la loro approvazione sono figli dell’esclusione di Dio dalla società e del rifiuto di dargli gloria. Ma oggi quei passi sono censurati anche da tanti biblisti. Eppure, la loro attualità è evidente. La Chiesa dovrebbe avvisare che coloro che compiono quegli atti, in piena avvertenza, camminano verso l’Inferno. E indicare loro che possono ancora giungere alla gioia eterna, accogliendo la grazia di Gesù Cristo.
- VENDOLA E FRATELLI TUTTI
Caro direttore,
una persona amica mi ha fatto pervenire questo testo del cardinale Giacomo Biffi, che non avevo più presente. È un testo che oggi si qualificherebbe come “ingenuità teologica” e “lettura acritica e ingenua” dei testi del Nuovo Testamento, comunque è un’utile meditazione a seguito del dibattito recente.
Padre Riccardo Barile
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“IO STO CON SAN PAOLO, E CHI LO CENSURA È UN PUSILLANIME” (Giacomo Biffi)
Riguardo al problema oggi emergente dell’omosessualità, la concezione cristiana ci dice che bisogna sempre distinguere il rispetto dovuto alle persone, che comporta il rifiuto di ogni loro emarginazione sociale e politica (salva la natura inderogabile della realtà matrimoniale e familiare), dal rifiuto di ogni esaltata “ideologia dell’omosessualità”, che è doveroso.
La parola di Dio, come la conosciamo in una pagina della lettera ai Romani dell’apostolo Paolo, ci offre anzi un’interpretazione teologica del fenomeno della dilagante aberrazione culturale in questa materia: tale aberrazione - afferma il testo sacro - è al tempo stesso la prova e il risultato dell’esclusione di Dio dall’attenzione collettiva e dalla vita sociale, e della renitenza a dargli la gloria che gli spetta (cf. Romani 1,21).
L’estromissione del Creatore determina un deragliamento universale della ragione: «Si sono perduti nei loro vani ragionamenti e la loro mente ottusa si è ottenebrata. Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti» (Romani 1,21-22). In conseguenza di questo accecamento intellettuale, si è verificata la caduta comportamentale e teorica nella più completa dissolutezza: «Perciò Dio li ha abbandonati all’impurità secondo i desideri del loro cuore, tanto da disonorare fra loro i propri corpi» (Romani 1,24).
E a prevenire ogni equivoco e ogni lettura accomodante, l’apostolo prosegue in un’analisi impressionante, formulata con termini del tutto espliciti:
«Per questo Dio li ha abbandonati a passioni infami; infatti le loro femmine hanno cambiato i rapporti naturali in quelli contro natura. Egualmente anche i maschi, lasciando il rapporto naturale con la femmina, si sono accesi di desiderio gli uni per gli altri, commettendo atti ignominiosi maschi con maschi, ricevendo così in se stessi la retribuzione dovuta al loro traviamento. E poiché non ritennero di dover conoscere Dio adeguatamente, Dio li ha abbandonati alla loro intelligenza depravata ed essi hanno commesso azioni indegne» (Romani 1,26-28).
Infine san Paolo si premura di osservare che l’abiezione estrema si ha quando «gli autori di tali cose... non solo le commettono, ma anche approvano chi le fa» (cf. Romani 1,32).
È una pagina del libro ispirato, che nessuna autorità terrena può costringerci a censurare. E neppure ci è consentita, se vogliamo essere fedeli alla parola di Dio, la pusillanimità di passarla sotto silenzio per la preoccupazione di apparire non “politicamente corretti”.
Dobbiamo anzi far notare il singolare interesse per i nostri giorni di questo insegnamento della rivelazione: ciò che san Paolo rilevava come avvenuto nel mondo greco-romano, si dimostra profeticamente corrispondente a ciò che si è verificato nella cultura occidentale in questi ultimi secoli. L’estromissione del Creatore - fino a proclamare grottescamente, qualche decennio fa, la “morte di Dio” - ha avuto come conseguenza (e quasi come intrinseca punizione) un dilagare di una visione sessuale aberrante, ignota (nella sua arroganza) alle epoche precedenti.
L’ideologia dell’omosessualità - come spesso capita alle ideologie quando si fanno aggressive e arrivano a essere politicamente vincenti - diventa un’insidia alla nostra legittima autonomia di pensiero: chi non la condivide rischia la condanna a una specie di emarginazione culturale e sociale.
Gli attentati alla libertà di giudizio cominciano dal linguaggio. Chi non si rassegna ad accogliere la “omofilia” (cioè l’apprezzamento teorico dei rapporti omosessuali), viene imputato di “omofobia” (etimologicamente la “paura dell’omosessualità). Deve essere ben chiaro: chi è reso forte dalla luce della parola ispirata e vive nel “timore di Dio”, non ha paura di niente, se non della stupidità nei confronti della quale, diceva Bonhoeffer, siamo senza difesa. Adesso si leva talvolta contro di noi addirittura l’accusa incredibilmente arbitraria di “razzismo”: un vocabolo che, tra l’altro, non ha niente a che vedere con questa problematica; e in ogni caso è del tutto estraneo alla nostra dottrina e alla nostra storia.
Il problema sostanziale che si profila è questo: è ancora consentito ai nostri giorni essere discepoli fedeli e coerenti dell’insegnamento di Cristo (che da millenni ha ispirato e arricchito l’intera civiltà occidentale), o dobbiamo prepararci a una nuova forma di persecuzione, promossa dagli omosessuali faziosi, dai loro complici ideologici e anche da coloro che avrebbero il compito di difendere la libertà intellettuale di tutti, perfino dei cristiani?
Una domanda rivolgiamo in particolare ai teologi, ai biblisti e ai pastoralisti. Perché mai in questo clima di esaltazione quasi ossessiva della Sacra Scrittura il passo paolino di Romani 1,21-32 non è mai citato da nessuno? Come mai non ci si preoccupa un po’ di più di farlo conoscere ai credenti e ai non credenti, nonostante la sua evidente attualità?
(Giacomo Biffi, Memorie e digressioni di un italiano cardinale, nuova edizione ampliata, Cantagalli, Siena, 2010, pp. 609-612).
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Come reagire al testo del cardinal Biffi che, «benché morto, parla ancora?» (Eb 11,4)? Sono considerazioni che, sulla falsariga dell’apostolo Paolo, pongono il problema nella sua luce ultima: il rapporto con Dio e dunque con la salvezza o la dannazione eterna.
Credo che oggi la Chiesa - insieme ovviamente alla non discriminazione e all’accoglienza e a percorsi pastorali, sebbene questi ultimi non troppo ghettizzanti perché per gli omosessuali e per tutti gli altri gruppi, carismatici compresi, è promozionale essere trattati come gli altri nella comunità cristiana e non costituire un gruppo a parte in una sorta di riserva indiana - dovrebbe dire chiaramente che coloro i quali, con piena coscienza e avvertenza e di proposito per una scelta di vita, compiono atti sessuali di tipo omo e in ogni caso al di fuori di un regolare matrimonio, camminano verso la dannazione, cioè verso l’Inferno e l’infelicità eterna. Non che sono dannati adesso - adesso sono in peccato mortale -, ma “camminano verso” la dannazione.
E la Chiesa manda questo avvertimento non in primo luogo per condannare, ma perché ritiene di avere gli strumenti - la grazia di Gesù Cristo - attraverso i quali chi “cammina verso” la dannazione possa invertire il cammino e intraprendere un cammino di salvezza.
Senza avvertire questo pericolo e segnalarlo, perché mai la Chiesa dovrebbe occuparsi degli omosessuali? Oppure perché mai dovrebbe occuparsene un poco di più della Messa annuale per la Confartigianato?
Senza ribadire chiaramente queste categorie, i discorsi sulla non discriminazione e sull’accoglienza, giusti in se stessi, rischiano di suonare equivoci. Di certo oggi la valutazione sociale dell’omosessualità e il conseguente controllo sociale sono cambiati rispetto a ieri, e la non discriminazione e l’accoglienza sono un progresso sociale che interpella i credenti; ma è cambiato anche il giudizio di Dio? E se queste cose non le dice la Chiesa e i pastori della Chiesa, chi mai le dovrà dire? E se i pastori tacciono, forse che Dio non chiederà conto a loro nel giorno del giudizio?
Mi trova consenziente e plaudente anche la considerazione finale sul biblicismo diffuso, che però di fatto oscura o dimentica certi passi che non fanno comodo (cfr. il silenzio e la negazione esplicita riguardo ai castighi di Dio). È un’incongruenza che vado osservando e stigmatizzando da anni. Così come il discorso della sinodalità: in se stesso buono, in concreto al 75% è messo in campo per far passare e digerire idee e prassi molto discutibili, se non errate, e in ogni caso destabilizzanti. E tuttavia, per amore del 25% che funziona, non è una prassi da accantonare. E a maggior ragione, nonostante il silenzio di alcuni su alcuni versetti, va incoraggiata e diffusa una sempre più critica e soave e viva conoscenza delle Scritture.