La Chiesa in Africa alle prese con la grande sfida del tribalismo
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Il tribalismo è un problema persistente in Africa. Il prossimo non viene accettato se non all'interno della tribù e solo se rispetta il suo ruolo. Minaccia la Chiesa, quando vescovi non vengono accettati perché appartenenti a tribù minoritarie nella loro area

Il cristianesimo, fin dalla sua comparsa in Africa, vi ha introdotto il principio, altrimenti assente, che tutti gli esseri umani, figli di Dio amatissimi, hanno pari dignità e valore. Ma questo principio ha incontrato enormi resistenze perché il processo di costruzione dell’identità personale e collettiva nelle società africane si fonda tradizionalmente sull’appartenenza tribale, di sangue, indissolubile e insostituibile, e quindi sulla irriducibile contrapposizione dei simili, per nascita e affinità, ai diversi, e sul loro rigetto.
Nei secoli, soprattutto a partire dal XV, la Chiesa, pur riconoscendo, apprezzando e valorizzando le specificità etniche, ha incessantemente provato a indurre i fedeli a superare le divisioni tribali, ad abbandonare odio, disprezzo, diffidenza nei confronti degli “altri”, a considerare “prossimo” tutti gli uomini e non più soltanto i componenti della propria linea di discendenza. Ha avuto successo solo in parte. Lo stato attuale del continente lo dimostra. La storia dell'Africa precoloniale si può leggere come un susseguirsi di conflitti inter e intra tribali per il controllo delle risorse naturali. Lignaggi, clan, tribù si alleavano e si combattevano per conservare e ampliare i loro territori. Continuano a farlo e, dopo la fine della colonizzazione europea, la competizione si è estesa al controllo dell’apparato governativo, fonte di potere e ricchezza. I raggruppamenti e i partiti politici continuano a formarsi quasi sempre su base tribale, o anche tribale, e quindi territoriale. Ogni uomo politico è rappresentante di una tribù, di un clan, di un lignaggio.
Gli Hutu in Rwanda, nel 1994, hanno ucciso quasi un milione di Tutsi in cento giorni, determinati a liberarsi della tribù antagonista: “sterminiamo tutti gli scarafaggi” esortava Radio Mille Colline. Il Sudan del Sud dal 2013, due anni soltanto dopo essere diventato indipendente, è teatro di un conflitto – armato e totale fino al 2018, a bassa intensità in seguito – tra le due tribù più potenti che si contendono ministeri e cariche politiche: i Dinka e i Nuer. In Somalia l’incapacità, il rifiuto di coesistere e di governare insieme dei clan in cui la popolazione è divisa è all’origine della guerra iniziata nel 1987 e che continua a fare vittime, ogni giorno.
Ma il tribalismo non risparmia neanche la Chiesa stessa ed è un problema «la cui persistenza non può essere negata» e la cui gravità «non va minimizzata». In questi termini si è espresso monsignor Fortunatus Nwachukwu, arcivescovo nigeriano, dal 2023 addetto al Dicastero per l’evangelizzazione, intervenendo il 5 settembre a un corso di formazione per i vescovi di nomina recente. Monsignor Nwachukwu l’orrore del tribalismo lo ha sperimentato in prima persona, da bambino, perché è un Igbo, la tribù della Nigeria sud orientale che tra il 1967 e il 1970 pagò con un milione di morti, in gran parte per fame e stenti, il tentativo di secessione, e ancora una parte degli Igbo non hanno rinunciato.
«Quando l'identità culturale, etnica o di casta viene esaltata al di sopra della nuova nascita del battesimo, la fede e l’unità del Popolo di Dio sono messe in pericolo» sostiene monsignor Nwachukwu che ha chiamato il fenomeno «sindrome del ‘figlio della terra’» e l’ha definito «una sfida teologica che mina il potere riconciliante della Croce e l’unità dello Spirito, in contrasto con tutta la storia della Salvezza, dal dono mirabile della creazione al mistero più mirabile della redenzione iniziata con l’incarnazione di Cristo».
Il tribalismo, ha poi spiegato monsignor Nwachukwu citando degli esempi, nella Chiesa si manifesta «ogni volta che la cultura viene trattata come un assoluto e l'appartenenza che prevale non è quella che fiorisce dal battesimo, ma quella della tribù, del gruppo etnico o della casta. E allora anche le nomine episcopali, l’esercizio dell’autorità e tutta la vita comunitaria vengono vissute nell’ottica della affiliazione tribale o di casta, e non secondo il Vangelo».
I casi sono tanti, troppi. Tra i più clamorosi c’è quello della diocesi di Makeni, in Sierra Leone. Nel 2011 la decisione del Vaticano di sostituire con un sacerdote africano il vescovo italiano Giorgio Biguzzi, che per raggiunti limiti d’età lasciava l’incarico ricoperto per 24 anni, aveva destato l’entusiasmo dei fedeli e del clero. Ma la gioia aveva presto lasciato il posto a una rabbia incredula non appena si era sparsa la notizia che la scelta del successore era caduta su padre Henry Aruna, un sacerdote di etnia Mende, la seconda etnia della Sierra Leone, ma concentrata nel sud, mentre Makeni è al nord ed è il territorio dei Temne, l’etnia più numerosa. I sacerdoti avevano sbarrato le porte della cattedrale, la popolazione era insorta. Monsignor Aruna, l’“usurpatore”, ordinato nella capitale Freetown per evitare disordini, a Makeni non si è mai insediato. La Santa Sede scelse di lasciare l’incarico vacante e chiamò a gestire la diocesi un amministratore apostolico, padre Natalio Paganelli, un missionario saveriano. Per la popolazione, meglio un altro vescovo straniero piuttosto che uno di un’altra tribù.
In Nigeria monsignor Peter Ebere Opkaleke era stato nominato nel 2012 vescovo della diocesi di Ahiara, ma si è scontrato con l’ostilità di clero e fedeli, irremovibili nel rifiutarlo, disposti piuttosto a rimanere senza un vescovo. Gli abitanti della diocesi di Ahiara, situata nello stato sudorientale di Imo, sono quasi tutti Mbaise, una delle molte tribù del grande gruppo etnico Ibo. Anche Monsignor Opkaleke, originario del vicino stato di Anambra, è un Ibo, ma di un’altra tribù, ed è per quest’unico motivo che la popolazione non ne ha accettato la nomina. Anche lì la cattedrale è stata persino bloccata con barricate per impedirgli di entrare, se mai avesse osato presentarsi. Nel 2018 monsignor Opkaleke, oggi cardinale, ha presentato le sue dimissioni senza aver mai messo piede nella sua diocesi.
Nel 2021, nel Sudan del Sud, monsignor Christian Carlassare, missionario comboniano, è stato aggredito e ferito alle gambe. Stava per essere nominato vescovo di Rumbek. Un suo confratello, sotto anonimato, aveva riferito all’agenzia di stampa Fides: «crediamo volessero spaventarlo affinché se ne vada da Rumbek. Siamo convinti che vi siano gruppi che non vogliono un vescovo straniero, ma un Dinka, l’etnia maggioritaria nella zona. Non sappiamo se ci sono membri della Chiesa complici di questa azione o se ci sono persone legate al potere locale. Quello che è certo è che l’alto livello di tribalismo presente nelle contee meridionali del Sud Sudan vede in un vescovo straniero una minaccia». È uno straniero e, peggio ancora, è legato a un’altra etnia, confermava padre Filippo Ivardi Ganapini, direttore della rivista Nigrizia, il mensile dei missionari comboniani: «probabilmente a qualcuno non andava giù che un giovane venuto da lontano e che avesse lavorato per quindici anni con l’altro gruppo etnico preponderante nel paese, i Nuer, fosse stato scelto proprio per guidare la diocesi». L’anno successivo per l’aggressione sono stati condannati a sette anni di carcere un sacerdote della diocesi e quattro laici.