La chiamata di Matteo, la potenza dell'immagine
La chiamata di Matteo del Caravaggio in San Luigi de' Francesi. Ciascuno di noi, ammirando questa stupenda immagine, forse potrà sentirsi chiamato personalmente. Anzi, dovrà sentirsi, tra tanti, l’eletto.
Roma, piazza San Luigi dei Francesi. Una manciata di passi da Palazzo Madama, appena al di là della strada. Chiunque transiti di lì in qualunque ora del giorno, festivi compresi, noterà un assembrarsi di persone che entrano ed escono dalla chiesa un tempo roccaforte del clero francese in quel di Roma. Il perché è presto detto: quelle mura, da quattrocento anni, proteggono un tesoro, un capolavoro divenuto celebre in tutto il mondo, imperdibile per chi abbia l’occasione di visitare, o transitare, per la Città Eterna. Porta la firma del Merisi, altrimenti noto come Caravaggio che, giovane pittore, nel 1599 ricevette la commissione del programma decorativo della cappella Contarelli, interamente dedicato alla figura di San Matteo, l’Evangelista.
La vocazione del discepolo, che l’altro Evangelista, Marco, sintetizza nell’incisivo imperativo “Seguimi” pronunciato da Nostro Signore poco prima della cena in compagnia di pubblicani e peccatori che tanto scandalo suscitò tra i contemporanei, è il tema che il Caravaggio sviluppa su una di quelle grandi tele. La sua superficie, coi suoi abbondanti dieci metri quadrati, supera, per dimensione, e per la prima volta, quella dei dipinti realizzati dall’artista fino ad allora. La soluzione finale, consegnata al committente solo un anno dopo, allo scoccare del Giubileo del 1600, è senza dubbio una delle immagini più potenti della storia dell’arte di sempre.
Immersi nella penombra, in un locale che, presumibilmente, data la professione di Matteo, esattore delle tasse, è un ufficio della dogana, i protagonisti si stagliano dal fondo, e dal buio, solo grazie ad uno squarcio di luce proveniente dalle spalle del Cristo. Non ha nulla a che fare con la luce naturale che, ragionevolmente, dovrebbe provenire dall’unica finestra rappresentata nel registro superiore del dipinto, chiusa, invece, a formare una croce per alludere a un altro episodio della vita di Gesù. La luce è qui, piuttosto, simbolo della Grazia divina che investe gli astanti ma li lascia liberi di decidere se seguire o no la strada della salvezza.
Sono tutti uomini, vestiti con abiti seicenteschi, ovvero l’epoca in cui visse il pittore. La realistica raffigurazione di pose, volti ed espressioni, oltre a ricordarci la nota frequentazione dei bassifondi romani, postriboli e taverne, da parte del Merisi, sottolinea la sua volontà di immergere nella contemporaneità il momento da lui immortalato.
Particolarmente espressiva è la gestualità di Cristo, Pietro e Matteo; sicuramente Caravaggio aveva visto, e ammirato, il Michelangelo della Sistina e, di quest’ultima, la mano protesa del Creatore e di Abramo.
Non tutti gli storici dell’arte sono, però concordi, nel riconoscere Matteo nella figura dell’uomo che indica se stesso. Altri lo identificano con il giovane che conta, a testa bassa, il denaro sparso sul tavolo. Quale che sia la corretta lettura, poco importa. Ciascuno di noi, ammirando questa stupenda immagine, forse potrà sentirsi chiamato personalmente. Anzi, dovrà sentirsi, tra tanti, l’eletto.