La Catalogna e il risveglio delle nazioni
Barcellona protesta per la condanna dei leader dell'indipendentismo della Catalogna a pene carcerarie molto severe. E' l'ultima tappa di un braccio di ferro fra lo Stato centrale e una nazione catalana che non si sente Spagna e vuole separarsi. Ma non è un caso unico. Il risveglio delle nazioni è il fenomeno dei nostri tempi.
Le strade di una grande città europea occidentale, Barcellona, si sono riempite di una folla in protesta, illuminate dalle luci di decine di migliaia di cellulari. La Catalogna protesta, perché il tribunale supremo spagnolo ha condannato a pene severissime 13 esponenti politici catalani, organizzatori del referendum sulla secessione dell’ottobre 2017. La condanna più pesante (13 anni) è andata a Oriol Junqueras, uno dei leader dell’indipendentismo catalano tutt’ora in carcere; pene che variano tra i 9 e i 12 anni sono state comminate ad altri 12 politici locali protagonisti del tentativo di secessione di Barcellona da Madrid. Carles Puidgemont non è fra i condannati solo perché è in esilio volontario in Belgio. Si può rimanere sbalorditi di fronte a tanta durezza della legge nei confronti di oppositori che hanno violato la Costituzione, ma senza usare la violenza. Eppure le pene sono state meno severe rispetto a quel che chiedeva l’accusa. Gli anni di carcere a cui sono stati condannati 9 ex politici catalani sono previsti dal reato di "sedizione", ma non di "ribellione" (sedizione con l'uso della forza), nel caso dei quattro ex ministri catalani si aggiunge anche il reato di malversazione per l'uso illegale di fondi pubblici. E' l'atto di sedizione in sé (e non i suoi metodi) che viene colpito con tutti quegli anni di carcere. La crisi catalana può dunque essere letta solo come una guerra a colpi di sentenze, una prova di forza delle autorità centrali contro quelle separatiste.
Il secessionismo catalano ha un'origine remota. Tradizionalmente viene celebrato nella grande manifestazione della Diada, l’11 settembre di ogni anno. L’11 settembre 1714 è la data che gli indipendentisti catalani considerano il momento dell’annessione di Barcellona alla Spagna, alla fine della Guerra di Successione Spagnola, anche se in effetti la Catalogna era giè parte della Spagna da secoli, seppur con una certa autonomia. Il separatismo tradizionale è rimasto sempre latente, ma minoritario, più folclore che politica. A questo si è aggiunto un separatismo ideologico, che trae origine dalla Guerra Civile (1936-39), quando la Catalogna, una volta rovesciata la monarchia ottenne piena autonomia dal nuovo governo repubblicano. Scoppiata la guerra, nel 1936, i catalani ottennero un’indipendenza di fatto, combattendo contro i franchisti, ma anche contro i comunisti e i radicali repubblicani, che erano per l’unità spagnola. La Catalogna fu un esperimento terribile di anarchismo, sul suo territorio venne commesso (sia dagli anarchici che dai comunisti) il grosso dei crimini contro i cattolici e la Chiesa. Il separatismo repubblicano che si rifà all’esperienza della Guerra Civile è tuttora connotato da una forte ideologia di estrema sinistra ed è molto anticlericale. Il moderno indipendentismo di massa, tuttavia, include anche partiti moderati che nulla hanno a che vedere con quell’eredità criminale. Le sue cause sono molto più recenti. Nel 2006, la Catalogna riuscì a rinegoziare con il governo Zapatero il suo statuto, ma non riuscì ad ottenere l’autonomia fiscale (simile a quella chiesta anche da Lombardia e Veneto in Italia). Nel 2010, Mariano Rajoy, leader del Partito Popolare (allora all’opposizione) ha vinto la sua causa presso la Corte costituzionale, revocando lo statuto del 2006. Si aggiunga il fatto che in quell’anno si era nel pieno della crisi economica e che la Catalogna, la regione più ricca (anche se la più indebitata) si è trovata a dover subire le conseguenze della politica economica di Madrid, e il danno è fatto.
La marcia dell’indipendentismo è stata piuttosto rapida: da movimento ideologico e di nicchia è diventato movimento di massa in soli sei anni. La realtà secessionista è emersa chiaramente il 27 settembre 2012, quando la Generalitat, il parlamento catalano autonomo, ha votato per indire un referendum sull’autodeterminazione. Il referendum si è svolto cinque anni dopo, dopo un lungo dialogo infruttuoso con Madrid. E la risposta è stata dura. La polizia è intervenuta per smantellare i seggi e disperdere gli elettori, da lì in avanti le autorità di Madrid, con il pieno appoggio del re, hanno ridotto al minimo l’autonomia della Catalogna anche con l’applicazione dell’articolo 155 che permette al governo centrale di prendere il controllo o commissariare tutte le istituzioni locali. La condanna dei leader indipendentisti è solo l’ultima tappa di questo percorso di ri-centralizzazione. Ma non è detto che ponga fine alla questione catalana. Anzi: la massiccia adesione alle manifestazioni di protesta, dimostra che ancora molto rancore cova sotto le ceneri.
Per capire, interpretare e giudicare la questione catalana, non possiamo che leggerla come una delle tante e multiformi espressioni di un fenomeno mondiale: il risveglio delle nazioni. Il separatismo catalano ha molto in comune con quello scozzese, che si è sviluppato e rafforzato nello stesso periodo. Ma è anche un “gemello diverso” della Brexit (separatismo inglese dall’Unione Europea), della vittoria di Donald Trump (America First contro i vincoli della comunità internazionale), della vittoria di partiti conservatori e identitari in Ungheria e in Polonia (contro la centralizzazione dell’Ue, che ricorda loro, alla lontana, il dominio che fu dell’Urss). E anche all’euroscetticismo in Italia, capitanato da un Lega che, anche all’interno del Paese, perora la causa delle autonomie delle regioni del Nord e fino a non molto tempo fa anche la secessione.
Gli identitari catalani, progressisti, laicisti, europeisti, multiculturalisti e pro-immigrati, sono apparentemente l’opposto degli identitari di destra. Ad esempio, nessun leader catalano attuale si dice amico di Matteo Salvini. Il quale, per altro, è alleato con Vox, il più centralista dei partiti spagnoli. Per cultura e storia, le nazioni e i nazionalismi non sono mai stati e non potranno mai essere un moto “internazionale”. Ma tutti rispondono alla stessa domanda politica di base: più rappresentanza democratica dei cittadini locali sul proprio territorio. La globalizzazione, lungi dall’aver ammorbidito questa tendenza, l’ha paradossalmente rafforzata: accelerando le comunicazioni e l’interdipendenza fra popoli, anche molto lontani, ha reso meno indispensabili gli Stati centrali, con le loro grandi strutture e i loro confini estesi.
Proprio la globalizzazione ha marcato in modo più netto la differenza fra le nazioni e gli Stati. Una nazione è un'unità data dalla volontà generale di difendersi, dall’idioma, dalla religione, dalle tradizioni, dalla stirpe e dal temperamento. Altri aspetti identificativi sono i valori morali diffusi, i costumi, le consuetudini, le espressioni artistiche, un territorio comune. Lo Stato è invece l’ente monopolista tendenziale della violenza ed è un costrutto artificiale affermatosi nell’età degli assolutismi. Fra Stato e nazione non c’è mai stato un matrimonio perfetto, specie quando lo Stato comprende nei suoi confini più di una nazione. L’equilibrio fra Stato e nazione è molto fragile, tentare di mantenerlo con la forza può dare adito a tragici effetti collaterali.