La Cassazione s'inventa il matrimonio gay
Alla Corte Costituzionale il caso di un uomo che, dopo anni di matrimonio, ha deciso di diventare donna e, di conseguenza, ll'obbligo di divorzio. Se la Consulta accogliesse le ragioni della Cassazione l'Italia realizzerebbe il matrimonio gay.
Quando la realtà (giuridica) supera la fantasia. Ecco i fatti. Alessandro sposa Maria. Poi Alessandro decide di diventare Alessandra cambiando sesso. Per il nostro ordinamento giuridico se sei sposato e successivamente cambi sesso, non c’è nulla da fare: il tuo matrimonio viene sciolto automaticamente, nolenti o volenti i due coniugi. E’ questione di logica elementare: per la nostra legge il matrimonio è un vincolo che unisce un uomo e una donna. Se all’anagrafe metti mano alla rettificazione del sesso il matrimonio va a sbattere contro il muro del divorzio andando in mille pezzi. Questo è ciò che disciplina l’art 4 della legge 164/1982.
Alessandra però non ci sta e prima si reca presso il comune di Bologna, il quale comune allarga le braccia e dice che la coppia si deve rassegnare. Poi si reca in tribunale che gli/le dà ragione ma solo per una questione formale: ci deve essere comunque una sentenza di un giudice che dichiari il matrimonio defunto, non ci possono essere automatismi di sorta (però non così dice la legge). Ma il Ministero dell’Interno si oppone e in appello la coppia si vede confermato il divorzio, dato che il persistere di un vincolo a fronte del cambiamento di sesso di uno dei coniugi significherebbe “mantenere in vita un rapporto privo del suo indispensabile presupposto di legittimità, la diversità sessuale dei coniugi". Ma l’ex Alessandro non demorde e ricorre in Cassazione. I giudici dell’alta corte il 6 giugno scorso gli/le danno ragione e rinviano la decisione alla Corte Costituzionale perché secondo loro il divorzio imposto ai coniugi dove uno dei due ha cambiato sesso è incostituzionale dal momento che contrasta con gli artt. 2 (diritti inviolabili) e 29 (matrimonio) della Costituzione e con gli artt. 8 (vita privata) e 12 (diritto al matrimonio) della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Il fatto che il matrimonio è appannaggio solo di due persone di sesso diverso è oggi come oggi un’ingiustizia bella e buona secondo i giudici: "tale univoca previsione", non riconosce "il rilievo primario di formazioni sociali in un contesto costituzionale in cui è largamente condivisa l'esigenza di riconoscere le unioni di fatto". Ma non si parlava di matrimonio? Cosa c’entrano le unioni di fatto? Forse tutto fa brodo.
Comunque proseguiamo. Il divorzio coattivo "mina alla radice il principio di autodeterminazione del soggetto che intende procedere alla rettificazione del sesso, conseguendo a tale opzione la eliminazione per il futuro del diritto alla vita familiare, realizzato mediante la scelta del vincolo matrimoniale”. In sintesi: lo scioglimento automatico del vincolo rappresenta "un'ingerenza statuale", è “discriminatorio” ed incide negativamente sulla "volontà individuale nell'esercizio del diritto personalissimo allo scioglimento del matrimonio". Questo perché il matrimonio "è fondato in via esclusiva" sul "canone indefettibile del consenso". Traduciamo per i non cassazionisti: sei tu che devi decidere quando ti vuoi sposare e sei sempre e solo tu che devi decidere quando vuoi divorziare. Non lo Stato. Così i giudici: "le scelte appartenenti alla sfera emotiva e affettiva costituiscono il fondamento dell'autodeterminazione" e "si esplicano al di fuori di qualsiasi ingerenza statuale". Insomma la Cassazione ha detto sì ad un matrimonio con due mogli.
Un paio di riflessioni. Il peccato originale di tutto questo imbroglio giuridico sta nel fatto che c’è una legge iniqua, la n. 164/82, che permette l’incredibile: cioè che Tizio dall’oggi al domani possa venir chiamata Tizia. Quando la valanga inizia a scendere a valle è impossibile fermarla e questa vicenda giudiziaria ne è la testimonianza.
Seconda riflessione. La legge prevede lo scioglimento automatico perché la tipologia di matrimonio fatta nostra dalla costituzione è quella del matrimonio come istituto di diritto naturale, cioè quello tra un uomo e una donna. Così si legge nell’art. 29, proprio quell’articolo che per gli avvocati della coppia dichiarerebbe incostituzionale il divorzio automatico del transessuale. E’ invece puntellandosi a questo articolo che dobbiamo dire che il divorzio imposto è legittimo.
Arriviamo al terzo pensierino. Siamo onesti: i giudici di Roma meritano il nostro plauso. Questo rinvio alla Corte costituzionale è davvero una strategia furbissima per far passare il matrimonio gay. Se la Consulta darà semaforo verde affinchè Alessandra rimanga sposata con Maria, avremo il primo matrimonio tra persone dello stesso sesso, non genetico, ma anagrafico. Vero che Alessandra rimarrà biologicamente sempre Alessandro, e nessuna carta bollata potrà mai sconfessare questo dato di realtà. Ma dal punto di vista giuridico comparirà su un atto di matrimonio che una donna anagrafica è sposata con un’altra donna anagrafica. Da qui il passo è breve: in men che non si dica due lesbiche chiederanno di non essere discriminate perché anche loro, come il trans Alessandra e Maria, sono donne anagrafiche. Perché i trans possono sposarsi – o rimanere sposati, la cosa cambia poco – e le lesbiche e gli omosessuali no? Sarebbe discriminatorio.
L’applauso è ancor più meritato se andiamo a leggere questa bella foglia di fico presente nella loro pronuncia messa lì apposta per ribattere all’obiezione appena fatta: “Non può essere trascurato, peraltro, che la sfera dei diritti complessivamente connessi alla rettificazione di sesso ed al fenomeno del transessualismo è del tutto peculiare e non omologabile od equiparabile alla condizione della coppie dello stesso sesso che richiedono a vario titolo il riconoscimento delle proprie relazioni stabili”.
Ultima riflessione. Qui si vuole la botte piena e la moglie transessuale. Alessandro sapeva che se avesse cambiato sesso non poteva rimanere sposato. Le due cose sono in conflitto. “Libero” lui di cambiare sesso, ma che abbia la responsabilità di assumersi le conseguenze dei suoi atti.