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SIRIA

Kobane resiste nell'ingorgo delle alleanze

Kobane, nella regione del Kurdistan siriano (Siria settentrionale), è diventata, suo malgrado, una città simbolo. Simbolo della resistenza curda contro le milizie jihadiste dello Stato Islamico. Ma i turchi, invece di aiutare chi è sotto assedio, a 15 chilometri dal loro confine, lanciano attacchi aerei contro... i curdi.

Esteri 15_10_2014
Carri armati turchi di fronte a Kobane

Kobane, nella regione del Kurdistan siriano (Siria settentrionale), è diventata, suo malgrado, una città simbolo. Simbolo della resistenza curda, prima di tutto: da un mese i Peshmerga stanno tenendo testa agli jihadisti dell’Isis, numericamente superiori e meglio armati. È di ieri la notizia della riconquista curda dell’altura di Tell Shair, una delle colline che dominano la città. Non solo: Kobane sta diventando il simbolo della passività occidentale di fronte alla minaccia dell’Isis. I curdi, infatti, sono stati lasciati da soli a combattere, appoggiati solo da sporadici (e inconcludenti, finora) raid aerei statunitensi. Eppure la città si trova ad appena 15 chilometri dal confine della Turchia. Che vuol dire, senza troppi giri di parole: il confine sudorientale della Nato.

Il livello di pressione internazionale sulla Turchia aumenta di giorno in giorno. L’inviato dell’Onu in Siria, l’italiano Staffan De Mistura (noto al grande pubblico per la sua inefficace attività diplomatica in India sull’affaire dei Marò) ha allertato l’opinione pubblica, affermando che Kobane potrebbe subire un genocidio, potrebbe diventare una “nuova Srebrenica”, fare la fine della città bosniaca musulmana che subì il massacro ad opera delle milizie serbe nel 1995, altro simbolo dell’ignavia dell’Onu. A nome delle Nazioni Unite, anche il segretario generale Ban Ki-moon, ha lanciato il suo appello per prevenire un massacro. Parole destinate a restare lettera morta, se non saranno seguite da un immediato invio di truppe in difesa della città assediata. La stampa internazionale ha diffuso in lungo e in largo le immagini girate dai propagandisti dell’Isis, nei quartieri di Kobane già occupati: teste mozzate, cadaveri appesi a testa in giù, corpi seviziati, esecuzioni sommarie. Il massacro, la “nuova Srebrenica” è già in corso, sotto gli occhi del mondo, sotto il naso dei turchi.

E dopo tutta questa pressione mediatica, politica, diplomatica, il comando turco si è deciso a lanciare i suoi primi attacchi aerei. Contro i curdi. Con una decisione che pare uscire da una commedia grottesca, proprio nel bel mezzo del pathos per la difesa della “Stalingrado curda”, i turchi hanno deciso di lanciare la loro campagna aerea contro le postazioni del Pkk al confine con l’Iraq. Non contro l’Isis, dunque, ma contro chi gli sta resistendo, o potrebbe resistergli nell’immediato futuro. La Turchia ha, insomma, mostrato le sue vere carte. Nemmeno quando gli jihadisti bussano alle sue porte meridionali li considera come una minaccia. Il governo di Recep Tayyip Erdogan, evidentemente, non vede nulla di pericoloso in un movimento islamico, sunnita, estremista, che nel corso degli ultimi tre anni ha indirettamente contribuito a far crescere. Il suo nemico dichiarato sono sempre i curdi, gli unici che resistono efficacemente allo Stato Islamico, ma anche gli stessi che vorrebbero creare uno loro Stato indipendente e sovrano, che includerebbe vaste regioni turche, oltre che siriane e irachene (e iraniane e armene). Nella guerra contro l’Isis, la Turchia è teoricamente un alleato-chiave. Nella pratica, sta combattendo dall’altra parte. I suoi stretti interessi nazionali passano davanti all’idea che esista un nemico comune. L’ideologia islamica dell’Akp, il partito di Erdogan, inizia a mostrare il suo conto. Dopo aver appoggiato Hamas in tutti i suoi conflitti con Israele, dopo aver appoggiato la resistenza islamica contro il regime di Assad, ora Erdogan non mostra alcuna intenzione di combattere (e neppure di lasciar combattere) un movimento come l’Isis. Che, per altro, fa proseliti persino nelle università della più occidentale Istanbul e pesca consensi nell’elettorato più radicale dell’Akp.

La Turchia è la dimostrazione palese che la costituzione di una coalizione solida contro l’Isis, sia una missione impossibile. Ma non è l’unica. L’altra brutta notizia, per la Coalizione, arriva dal Sud dell’Iraq, dal capo opposto del fronte anti-Isis. L’ultimo rapporto di Amnesty International dall’Iraq documenta almeno 170 sparizioni di iracheni arabi sunniti ad opera di milizie sciite. Secondo il rapporto della Ong internazionale, infatti, ben cinque milizie sciite, appoggiate dall’Iran, sin dal mese di giugno stanno agendo in assoluta impunità. A Samarra, Kirkuk e nella stessa capitale Baghdad, taglieggiano, rapiscono, intimidiscono o uccidono sommariamente civili sunniti, per vendicarsi degli eccidi dell’Isis, o semplicemente per stabilire il loro dominio. Questa campagna di terrore non resta priva di risposta, perché a Baghdad, ieri, è esplosa un’autobomba nel pieno di un quartiere sciita, che ha provocato almeno 18 morti. Non è la prima e non sarà l’ultima. Il premier iracheno, Haider al Abadi, promette un governo che sia rappresentativo “di tutti gli iracheni”. Ma, da quando ha preso il posto del suo predecessore Nouri al Maliki, non ha avuto il tempo, la forza o la fermezza necessari per impedire che il Paese sprofondasse ancora di più nello scontro settario.

La violenza delle milizie sciite è un problema grave, prima di tutto per l’Iraq. Perché impedisce la riunificazione del Paese: i sunniti, che abitano le province attualmente occupate dal Califfato, sono posti di fronte alla scelta fra sottomettersi ad Al Baghdadi o farsi uccidere dagli sciiti. Chi può fugge: secondo le ultime stime dell’Onu sono 180mila gli iracheni fuggiti dalla sola provincia di Anbar, nelle ultime due settimane di guerra civile. Il grosso della popolazione, comunque, accetta passivamente il dominio delle milizie dell’Isis. Il problema è grave anche per la coalizione anti-Isis, il cui pilastro orientale dovrebbe essere costituito proprio dal governo riconosciuto di al Abadi. Ma come fare a inviare armi a Baghdad, se queste finiscono nelle mani delle milizie sciite? E come lasciare carta bianca a queste ultime, se sono impegnate a massacrare civili sunniti, inducendo i più a cercare protezione sotto le bandiere nere dell’Isis?

Lo scandalo del comportamento turco a Kobane, da un lato e lo scandalo delle milizie sciite dal lato opposto, contribuiscono a spiegare anche i veti incrociati che paralizzano l’azione contro l’Isis. Se la Turchia dovesse intervenire in Siria, dovrebbe sostenere i curdi (che sono suoi nemici). La condizione sine qua non posta da Erdogan, per un eventuale intervento a Kobane (e in territorio siriano, in generale), è il rovesciamento del regime di Bashar al Assad. Ma a questo punto arriva il veto dell’Iran, che arma le milizie sciite in Iraq. Il regime di Teheran, dal canto suo, si è offerto di intervenire maggiormente contro l’Isis, anche sul fronte di Kobane. Ma, a questo punto, a porre il veto è la Turchia. In mezzo a questi veti incrociati, resta solo un vincitore: lo Stato Islamico.