Kenya, migliaia di profughi somali ricacciati nella guerra
Di loro non si parla, non si trasmettono immagini e filmati, per lo meno in Italia: così diversi da quelli che arrivano in gommone, che incontriamo ogni giorno per strada. Sono i rifugiati di Dadaab, il più grande campo profughi del mondo, creato in Kenya al confine con la Somalia nel 1992. Ora Nairobi li vuole rispedire in Somalia.
Di loro non si parla, non si trasmettono immagini e filmati, per lo meno in Italia: così diversi da quelli che arrivano in gommone, che incontriamo ogni giorno per strada e ovunque ci sia una connessione wi-fi. Sono i rifugiati di Dadaab, il più grande campo profughi del mondo, creato in Kenya al confine con la Somalia nel 1992, un anno dopo l’inizio della guerra tra i clan somali che ancora non è finita e che anzi, dieci anni fa, nello schieramento antigovernativo, ha visto affermarsi e poi prevalere un crudele, spietato gruppo jihadista legato ad al Qaida: al Shabaab, l’ala giovanile dell’Unione delle Corti Islamiche (al Shabaab vuol dire “i giovani”).
Il campo di Dadaab, in realtà una serie di grandi strutture che ricoprono una vasta area, ha ospitato fino a 600.000 persone, in gran parte somali in fuga dalla guerra e soprattutto dalle carestie ricorrenti. Adesso di rifugiati ne restano quasi 330.000, ma tra non molto, entro fine anno, saranno meno della metà: non perché la Somalia sta per essere del tutto pacificata e liberata dai jihadisti e neanche perché gli attuali ospiti del campo hanno intenzione di partire in massa affidandosi ai trafficanti che organizzano i viaggi clandestini verso l’Italia. Sono le autorità del Kenya che vogliono chiudere entro fine anno o subito dopo questo e un altro grande campo, per motivi di sicurezza, dicono.
Lo hanno deciso quasi un anno fa. Dapprima sembrava si trattasse in realtà di un ricatto, una minaccia, allo scopo di ottenere più contributi dall’Acnur, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, e dalla comunità internazionale. Invece facevano sul serio e i tentativi di dissuaderli non hanno dato esito. Il governo kenyano sostiene che i numerosi attentati compiuti dai jihadisti nel Paese, alcuni dei quali gravissimi, con decine di vittime, sono stati preparati proprio a Dadaab dove, oltre ai profughi, vivono molti miliziani somali con le loro famiglie. Inoltre a Dadaab abitano migliaia di cittadini kenyani che sono riusciti a farsi registrare come rifugiati: anche questo è un problema che va affrontato, nell’interesse del Paese, dell’Acnur e di chi lo finanzia.
Resistendo alle critiche e alle pressioni internazionali il governo del Kenya ha dunque ribadito la propria decisione, assicurando di voler procedere all’inevitabile chiusura di Dadaab nel rispetto di quanto prevede la Convenzione di Ginevra sullo statuto dei rifugiati. Fin da subito, tuttavia, si era temuto che le cose potessero andare ben diversamente. La Convenzione di Ginevra all’articolo 33 afferma il fondamentale “principio di non respingimento” in base al quale chi ottiene lo status di rifugiato non può essere costretto dal Paese in cui ha ricevuto asilo a rientrare in Patria, se questo ne mette in pericolo la vita o la libertà. In altre parole, la partenza, l’eventuale rimpatrio, deve essere volontario. M
Secondo l’organizzazione non governativa Human Rights Watch il Kenya sta violando questo diritto. Molti se non tutti gli ospiti di Dadaab – sostiene – sono partiti o si apprestano a farlo solo perché pensano che, se non accettano di lasciare il campo in queste settimane, verranno comunque deportati in seguito, per di più senza ricevere i 400 dollari che adesso le Nazioni Unite consegnano a ogni rifugiato che “decide” di andarsene. Inoltre l’Acnur non starebbe fornendo ai rifugiati in partenza informazioni precise sulle condizioni di sicurezza in Somalia. 400 dollari per tornare a casa, dove forse nessuno li vuole.
A Dadaab si contano migliaia di profughi di terza generazione, vale a dire nati a Dadaab da genitori a loro volta nati nel campo. Anche tra chi è nato in Somalia, c’è chi ha trascorso in Kenya gran parte della propria vita: loro non “tornano a casa”, ma in un Paese che nemmeno conoscono e in cui, se non hanno dei parenti disposti ad aiutarli, li aspetta da cittadini una vita incerta, insicura e tribolata più che da rifugiati. Per lo più si tratta di famiglie, quasi metà sono minori, molti i bambini che a Dadaab se non altro andavano a scuola e ricevevano assistenza sanitaria. Il ministro degli interni del Juba, la regione somala che confina con il Kenya, denuncia che i rifugiati corrono più rischi in Somalia perché non ricevono gli aiuti promessi e accusa l’Acnur di non seguire le procedure previste per il rimpatrio, di limitarsi a scaricare i rifugiati in territorio somalo e poi abbandonarli al loro destino.
Sta di fatto che dalla fine di agosto l’amministrazione della regione ha deciso di respingere i rifugiati che da allora vengono bloccati e a migliaia si affollano lungo il confine, tenendosi strette le poche masserizie, in attesa di sapere che cosa fare: la loro patria li respinge, a Dadaab non possono tornare. A giugno, nella capitale del Kenya, Nairobi, si era riunito il Comitato tecnico tripartito (formato da rappresentanti di Somalia, Kenya e Acnur) incaricato di indicare modalità e provvedimenti da adottare in Kenya e in Somalia «per garantire un ritorno sicuro, dignitoso e volontario ai rifugiati e la loro piena reintegrazione in patria, con il costante supporto dei governi del Kenya e della Somalia e dei loro partner». Si riunirà di nuovo a ottobre per valutare i progressi compiuti.