Kamala Harris, la candidata del politicamente corretto
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Non si sa ancora quale sarà l’esito delle urne, ma resta la domanda: per quale ragione il Partito Democratico ha scelto Kamala Harris anziché altre candidate più preparate di lei come Elizabeth Warren e Tulsi Gabbard? La risposta potrebbe stare in una sigla: DEI (diversity, equality, inclusion).
In Italia vediamo le più note star transoceaniche appoggiare Kamala Harris – Bruce Springsteen, Taylor Swift, Richard Gere, Beyoncé, Harrison Ford, Arnold Schwarzenegger, ecc. – e ci diciamo che sicuramente ha la vittoria in pugno, senza ricordare che pure Hillary Clinton aveva tutta Hollywood dalla sua parte, all’infuori di Bruce Willis, ma perse.
Prendiamo nota che il Washington Post, sempre schierato con i Dem, quest’anno non ha dato alcun appoggio, e ci affrettiamo ad attribuire la decisione al solo editore, Jeff Bezos, senza accorgerci che pure il tradizionalmente democratico Los Angeles Times ha negato ogni appoggio e che il programma tv Saturday Night Live, seguitissimo dai Democratici, ha distrutto la vice-presidente con uno sketch che non fa sconti all’incredibile insulsaggine dei suoi discorsi.
In Italia insomma i più vedono l’entusiasmo dei gesti e dei bei sorrisi, e non sentono le non-risposte, tutte uguali qualsiasi sia la domanda, e i discorsi definiti da tutti “word salads”, insalate di parole, notevoli solo perché ridicole o vuote di senso, utili a schivare domande non preventivate quando manca il teleschermo.
È da non credere che i Democratici, a contrastare l’odiatissimo Donald Trump, definito, nonostante i quattro anni di presidenza prospera e pacifica, un nuovo Hitler, grave pericolo, minaccia mortale alla democrazia, contro il quale è stato scatenato di tutto (ben due impeachment andati male, un’incursione notturna della polizia nella sua casa in Florida, molteplici processi in tribunale e due tentati assassinii di cui uno fallito per una questione di millimetri), abbiano schierato una candidata che definire poco convincente è dire poco.
A quanto pare è successo perché il Partito Democratico ha rimandato fino ad oltre ogni limite l’invito al presidente Joe Biden a fare un passo indietro quando era evidente a tutti che aveva le facoltà mentali compromesse. A conferma di trovarci nel regno dello spettacolo, la commedia planetaria è stata smascherata solo quando il comico italiano Maurizio Crozza – forse imbeccato dai suoi datori di lavoro a Discovery Channel (la Nove) – ha fatto la parodia del presidente, e l’attore George Clooney ha indirizzato una lettera aperta al suo presidente chiedendogli, lui, di fare un passo indietro.
Sul perché di questo rinvio si possono fare due ipotesi: 1) perché bloccati dalle ambizioni della first lady Jill Biden, ispirata ad emulare la moglie di Woodrow Wilson, Edith, che per un anno e mezzo, dall’ottobre 1919, complici i medici, tenne segreta la gravità dell’ictus sofferto dal marito, mettendosi lei a gestire personalmente l’Ufficio di presidenza; oppure 2) perché prolungare questa “commedia” era funzionale ai piani del gruppo dirigente del Partito che, nel mentre, ha preso e prende tutte le decisioni (direttivo che, a quanto è dato di capire, sarebbe composto in primis da Barack Obama e Hillary Clinton, assieme alla potentissima ex-speaker Nancy Pelosi e altri).
Ma c’è una terza ipotesi: che al Partito abbiano aspettato di proposito a mettere da parte Joe Biden fino alla conclusione delle primarie, che lo hanno incoronato nonostante tutto, in quanto presidente in carica non sconfessato. Potrebbe aver aspettato di proposito, cioè, per poter mandare avanti proprio Kamala Harris senza farla passare dal giudizio della base, che difficilmente avrebbe conquistato visto che alle primarie del 2019 era stata bocciata al primo turno, e gli anni alla Casa Bianca non sono stati privi di controversie legate al suo ruolo di “zarina” del confine con il Messico. E allora bisogna andare indietro e chiedersi: perché mai la scelta di Biden (o di chi per lui) cadde su di lei, vista la conclamata scarsissima popolarità (nel 2019 era arrivata ultima fra tutti)? Quale misteriosa qualità fece scegliere Kamala Harris al di sopra di altre donne candidate come Elizabeth Warren e Tulsi Gabbard, più esperte e popolari di lei?
La risposta potrebbe stare nella sigla DEI, diversity, equality, inclusion, la formula politicamente corretta e “obbligatoria” per assumere chiunque, che imponeva che candidata vicepresidente fosse una donna nera. E Kamala Harris era l’unica donna “nera” su 150 governatori e parlamentari da prendere in considerazione. A sua volta, la sua etnia e il suo genere hanno forzato la scelta del suo candidato vice fra i maschi bianchi.
Non si sa ancora se altre alchimie porteranno comunque ad una vittoria per la Harris alle urne, ma per ora queste nomine meccaniche e impersonali non risultano aver convinto nessuno in più rispetto all’elettorato normale dei Dem, e molti anzi ne sono stati allontanati. Nelle settimane dopo la sua candidatura il sostegno per la californiana, ufficialmente “nera” ma in realtà senza ascendenze afroamericane, è nettamente diminuito anche fra i neri, e l’appello allarmato di Barack Obama agli uomini neri di non fare i misogini ha ottenuto l’effetto contrario: una ribellione corale non solo degli uomini neri ma anche di molte delle loro donne, irritate che il loro voto sembri un dato acquisito.
Questi inciampi si accompagnano all’affluenza misera ai relativamente pochi comizi della Harris, che si direbbe inversamente proporzionale allo spazio ottenuto in pratica su quasi tutte le principali emittenti, quelle bersagliate dalle critiche frontali di Trump fin dal 2016, quando il termine “fake news” fece il suo primo ingresso dilagante in tutte le lingue.