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LAVORO

Jobs Act, sotto quegli annunci ancora niente?

ll “Jobs Act”, cioè il progetto di riforma del mercato e dei contratti di lavoro del governo Renzi, contiene misure utili per imprese e lavoratori o è soltanto uno slogan riconducibile a quella “annuncite” della quale l’attuale esecutivo viene accusato? Per rispondere, dovremmo provare a guardarci dentro.

Politica 21_10_2014
Il premier Matteo Renzi

Il “Jobs Act”, cioè il progetto di riforma del mercato e dei contratti di lavoro del governo Renzi, contiene misure utili per imprese e lavoratori o è soltanto uno slogan riconducibile a quella “annuncite” della quale l’attuale esecutivo viene accusato? Farà bene al Paese o è semplicemente funzionale a ottenere l’applauso delle istituzioni europee?  Per rispondere, dovremmo provare a guardarci dentro. Il problema tuttavia è che, a darci un’occhiata, il testo del disegno di legge approvato al Senato e ora alla Camera è così generico da impedire di comprendere come andrà a finire. Ed è vago proprio in quei punti più dibattuti e più enfatizzati dal governo: la disciplina dei contratti di lavoro e quella dei licenziamenti.

Qui sta il primo punto dolente. Quella che andrà in discussione alla Camera è una proposta di legge delega. Ovvero, una legge che, se approvata, fisserà principi e criteri direttivi per il governo, che dovrà darne puntuale attuazione con una serie di decreti legislativi. Ma i principi e i criteri direttivi, se generici, potrebbero costringere la Corte costituzionale a dichiarare l’incostituzionalità della legge o di una sua parte. Questo perché la funzione legislativa spetta primariamente al Parlamento. Esso può delegare la definizione di norme di dettaglio al governo, ma, appunto, dando indicazioni sufficientemente precise.

E veniamo di conseguenza al secondo punto dolente. Chi ha redatto questo disegno di legge? Il governo stesso. L’esecutivo Renzi, pertanto, sembra desiderare carta bianca. Ha bisogno di una legge delega per poter successivamente legiferare a propria volta; la confeziona su misura, lasciandola abbastanza oscura da impedire di comprendere quali saranno le scelte definitive; la fa approvare chiedendo la fiducia, senza un approfondito confronto in Aula. Se si aggiunge che l’attuale compagine governativa è priva di un immediato legame con il corpo elettorale, si percepisce il deficit democratico che accompagna l’iter legislativo. Ad esso si potrebbe almeno in piccola parte supplire con il confronto con le parti sociali. Ma, come si dice, “i tempi stringono” e “le riforme comunque vanno fatte”.

Che cosa dunque potrà essere deciso, lo si evince unicamente dalle dichiarazioni alla stampa formulate dal Presidente del Consiglio. Qui, per vero, sta il terzo punto dolente, perché i contenuti delle esternazioni paiono mutare con una certa frequenza. Tentiamo comunque di cogliere gli spunti di riforma prospettati, anche a partire dal testo approvato al Senato. Il governo annuncia di voler semplificare o sfoltire i contratti di lavoro (si veda l’art. 1, c. 7, lett. a, del disegno di legge delega). Tuttavia non si è ben compreso a quali contratti si voglia fare riferimento. In un primo momento si era addirittura parlato dell’eliminazione delle collaborazioni coordinate e continuative (co.co.co). Una ipotesi evidentemente non percorribile, perché si tratta di una modalità lavorativa praticamente ineliminabile (e infatti nella legge delega le co.co.co. restano). 

Si è quindi annunciata la sola soppressione delle collaborazioni coordinate e continuative a progetto. Il che è paradossale: il lavoro a progetto è stato introdotto dal c.d. decreto Biagi (d.lgs. n. 276/2003) al fine di contenere l’abuso delle co.co.co., cioè l’indebito utilizzo sostitutivo rispetto al contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. E le tutele del lavoratore, nel corso del rapporto, sono state elevate dalla cosiddetta riforma Fornero (per esempio, quanto ad ammontare del compenso, contribuzione previdenziale, disciplina del recesso). Si vuole pertanto eliminare un tipo contrattuale, perché abusato nella prassi, tornando al vecchio tipo, che era ancora più abusato. Si fa poi un gran parlare del “contratto a tutele crescenti”. L’idea, per sé non irragionevole, è che le garanzie di stabilità del rapporto crescano con l’anzianità di servizio. Ma, allora, è una questione di disciplina del licenziamento. Di qui il dibattito su ulteriori ipotesi di modifica dell’art. 18 S.l., già ampiamente rivisitato dalla riforma Fornero. 

Non vi è spazio in questa sede per entrare nel merito di un tema così complesso. Va però nuovamente segnalata la problematica costituzionale: non si vede come il governo possa modificare l’articolo in questione senza che nella legge delega vi sia nemmeno la parola “licenziamento”. Sul punto, va anche rilevata una contraddizione nelle scelte dello stesso esecutivo: pochi mesi fa, con il d.l. n. 34/2014, si scelse di liberalizzare il contratto a termine, per incentivare le imprese a nuove assunzioni. Ma la liberalizzazione è stata così ampia che, ora, esso rischia di costituire un forte concorrente del nuovo ipotetico contratto “a tutele crescenti”. Quest’ultimo, infatti, nelle intenzioni espresse, comporta comunque un costo per il datore di lavoro che voglia recedere nel periodo di “lunga prova” del lavoratore, pagando un indennizzo legato all’anzianità di servizio. Con il contratto a tempo determinato, invece, il datore di lavoro può semplicemente permettersi di lasciare scadere il termine per estinguere il rapporto. A meno di non incentivare il contratto a “tutele crescenti” – come si è annunciato di voler fare – con sgravi tali da più che compensare i vantaggi del lavoro a termine.

Da ultimo, sia consentita una notazione sulle norme della legge delega in tema di conciliazione tra la vita lavorativa e quella familiare (art. 1, cc. 8 e 9). Ci sono disposizioni interessanti, quali quelle in tema di orari flessibili, e che però richiedono la disponibilità di risorse per la creazione di incentivi. Si vedrà se il governo deciderà di stanziarle o comunque se ne avrà la possibilità. Ma quale credibilità ha un esecutivo che, mentre propone quanto detto, minaccia alle basi la famiglia preannunciando le unioni civili, se non di peggio?