Jihad studentesca contro chi abiura l’islam
Nuovi episodi di persecuzione islamica in Nigeria, Bangladesh e Pakistan. In questi casi, però, ad agire non sono miliziani jihadisti, ma studenti in Paesi in cui gli studi superiori preludono a un’esistenza sicura e una invidiabile posizione sociale. Una sorta di jihad studentesca contro i cristiani, ma non solo.
Il 22 agosto otto persone sono state uccise, arse vive, in Nigeria, a Talata Mafara, nello stato settentrionale di Zamfara. Una di esse era uno studente, accusato di blasfemia, cioè di aver in qualche modo offeso l’Islam e il profeta Maometto. Catturato e duramente malmenato, il ragazzo era riuscito a scappare. Un uomo lo aveva soccorso, portato in ospedale per medicare le lesioni e poi lo aveva ospitato a casa sua per proteggerlo da ulteriori aggressioni. Ma, quando i suoi persecutori hanno scoperto dove si era rifugiato, hanno dato fuoco all’abitazione uccidendo tutti coloro che si trovavano all’interno.
In un primo tempo si è detto che le vittime erano dei cristiani, uno dei quali un musulmano convertitosi. Invece il 28 agosto la Can, Associazione cristiana della Nigeria, ha dichiarato che nessuna delle persone uccise era cristiana. Resta vero il fatto che sia stata un’accusa di blasfemia a scatenare la violenza omicida. Per una volta però responsabile della terribile azione punitiva non è Boko Haram, il gruppo islamista in guerra dal 2009 per imporre la legge coranica in Nigeria, autore di tanti massacri nel nord est del Paese. Gli assassini sono, infatti, degli studenti di un istituto superiore, il Politecnico Abdu Gusau, compagni del giovane ucciso, il che per certi versi rende ancora più sconvolgente la vicenda.
Erano studenti, universitari, iscritti all’organizzazione studentesca Islami Chhatra Shibir, anche i ragazzi che in Bangladesh hanno sequestrato un loro ex docente, Anil Gomez, pochi giorni dopo il suo licenziamento deciso dai responsabili dell’ateneo di Kustia, una delle università pubbliche più prestigiose del Paese, in seguito alla scoperta, su denuncia dei colleghi, che aveva abiurato l’Islam e si era convertito al cristianesimo. «Mi volevano uccidere. Hanno reciso le vene delle mie gambe, ferito il mio corpo in vari punti, di fronte ai miei parenti e a fanatici musulmani del luogo. Il mio corpo riporta ancora le 40 cicatrici di quei colpi»: così ha raccontato ad AsiaNews Anil Gomez (un nome inventato per proteggerne l’identità). La sua storia, riportata dall’agenzia di stampa missionaria il 29 agosto, è un calvario senza fine, di cui l’aggressione subita anni or sono non è che l’episodio più grave. All’ostracismo e all’isolamento in cui vive contribuisce la sua stessa famiglia che lo ha rinnegato e abbandonato. È sposato con una donna cattolica, ha un figlio: «non riesco a mantenere la mia famiglia», dice, «ho bisogno di un impiego. Dal momento che credo in Gesù Cristo, affronto sempre dei problemi sul luogo di lavoro. Per favore, pregate per me».
Le due vicende hanno molto in comune a partire dal fatto che ad agire sono stati non dei miliziani jihadisti che hanno scelto una strada senza ritorno, ma degli studenti in Paesi in cui gli studi superiori preludono a un’esistenza sicura, benestante, garantita da una invidiabile posizione sociale. Si legge su un quotidiano nigeriano: «sconvolge la stupida impudenza di persone che si vantano di essere studenti e che ricorrono a una ferocia barbarica con il pretesto di difendere la loro fede. Un comportamento del genere non può essere tollerato in uno Stato moderno, i criminali devono essere trovati e puniti subito».
L’editoriale da voce a una indignazione che si vorrebbe ampiamente condivisa. Ma la realtà – ed è questo un secondo elemento in comune – è che sia in Nigeria sia in Bangladesh, due Paesi le cui costituzioni garantiscono libertà di religione, le aggressioni si sono verificate, come molte altre volte, in pubblico, apertamente, persino, nel caso di Anil, alla presenza di alcuni famigliari: segno che una parte consistente della popolazione approva simili atti estremi di intolleranza. Inoltre si sono potute portare a termine grazie alla svogliatezza con cui le forze dell’ordine intervengono in casi del genere, svogliatezza che inoltre lascia spesso impuniti i responsabili, protetti dalla popolazione e, malgrado le dichiarazioni ufficiali, perseguiti senza convinzione dalle autorità.
Un ulteriore elemento che accomuna Nigeria e Bangladesh, ma anche Pakistan e altri Stati, è la debolezza delle azioni di contrasto alla diffusione dell’Islam radicale. Il governatore dello stato di Zamfara ha partecipato ai funerali delle vittime di Talata Mafara, il presidente della repubblica Muhammadu Buhari ha deplorato l’accaduto. Il governo del Bangladesh ha dichiarato guerra agli elementi estremisti. Non basta, se poi si permette ai leader religiosi di predicare un Islam estremista o se le autorità scolastiche non solo ammettono discriminazioni e comportamenti intolleranti, ma ne danno esempio.
Il Bangladesh nell’elenco dei 50 Paesi in cui i cristiani sono più perseguitati, redatto ogni anno dall’organizzazione non governativa Open Doors Usa, è 35°, tra gli Stati in cui la persecuzione è definita moderata, ma le fatwa di morte contro gli apostati si moltiplicano. La Nigeria è 12a, tra gli Stati in cui la persecuzione è grave: il Paese si sta islamizzando – dicono i responsabili della Can commentando i fatti del 22 agosto – Boko Haram è solo un aspetto del problema.