Italiani a guardia della diga? Baghdad non li vuole
Mentre in Italia il governo, tra annunci e informazioni trapelate, fa sapere che invierà 500 militari a proteggere la Diga di Mosul, infrastruttura che verrà ristrutturata dall’azienda italiana Trevi Spa, il governo di Baghdad frena: «Nessuna intesa è stata finora sottoscritta tra governo iracheno e italiano».
La nuova missione militare italiana che va configurandosi in Iraq presenta non poche stranezze e per molti versi risulta poco convincente soprattutto perché gli iracheni non ne vogliono sapere di avere truppe italiane (e straniere in genere) da combattimento sul proprio territorio. Proprio quest’ultimo punto appare il più contraddittorio. Mentre in Italia il governo, tra annunci e informazioni trapelate, fa sapere che invierà 500 militari a proteggere la Diga di Mosul, infrastruttura che verrà ristrutturata dall’azienda italiana Trevi Spa, il governo di Baghdad frena. "Nessuna intesa è stata finora sottoscritta tra governo iracheno e italiano", ha detto prima di Natale il portavoce dell'esecutivo di Baghdad, Saad al Hadithi.
Il ministro delle Risorse idriche, Mushsin Al Shammary, ricevendo il 20 dicembre l'ambasciatore italiano, Marco Carnelos, ha affermato che l'Iraq «non ha bisogno di alcuna forza straniera per proteggere il suo territorio, i suoi impianti e la gente che ci lavora». Quanto al contratto per i lavori di consolidamento, Al Shammary si è limitato a dire che la società Trevi ha «presentato i documenti per partecipare alla gara». Il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, ha sottolineato che il gruppo romagnolo è l'unica ditta ad essersi candidata e quindi l'esito dovrebbe essere scontato, ma non sarebbe certo la prima volta, specie in Medio Oriente, che una commessa o una gara d’appalto vengono annullate per ragioni politiche. Il presidente della Commissione Difesa del Parlamento iracheno, Hakim Zamili, ha definito «irragionevole e illogico» il dispiegamento dei militari italiani a difesa dei lavori di manutenzione della diga di Mosul, nel governatorato settentrionale di Ninive.
«Abbiamo davvero bisogno dei militari italiani?», si è chiesto Zamili in un comunicato, affermando che le forze irachene sono in grado di proteggere la struttura da sole. Secondo il politico sono in atto delle manovre per «tracciare nuovi confini tra sunniti, sciiti, curdi e arabi» e per «dividere l'Iraq con il pretesto della guerra contro Daesh». Il presidente della commissione parlamentare ha quindi minacciato di «combattere tutti coloro che vengono in Iraq senza un motivo legittimo e senza l'autorizzazione del governo». Infine, anche il portavoce delle Brigate sciite irachene Hezbollah, Jaafar al Husseini aveva espresso concetti analoghi. «La nostra posizione è chiara: qualsiasi forza straniera in Iraq sarà considerata una potenza occupante a cui dobbiamo resistere». Ma allora che ci andiamo a fare in armi in Iraq se gli iracheni non ci vogliono? La risposta a questa domanda per ora non c’è e questo aspetto getta un alone grottesco su tutta la vicenda in cui Roma annuncia una missione in Iraq che gli iracheni non vogliono per proteggere il cantiere di un’azienda italiana che non ha ancora vinto la gara d’appalto per ristrutturare la diga.
Tra l’altro, autorità curde riferiscono che la diga ha subito danni per 250/40 milioni di dollari mentre la Trevi SpA è in gara per un appalto da 2 miliardi di dollari che evidentemente includono ampie opere di consolidamento che di chiederanno alcuni anni di lavori. Fonti vicine ai palazzi romani riferiscono che alla fine l’Iraq autorizzerà l’invio delle truppe italiane e il ministro Pinotti ha aggiunto che l'intervento avverrà in accordo con le autorità irachene e si aggiungerà alla missione addestrativa già in corso in Kurdistan e a quella aerea con uomini e velivoli basati in Kuwait. Anche l’obiettivo della missione, cioè proteggere i tecnici italiani (pare una quarantina) e la diga da attacchi dello Stato Islamico, non convince molto. L’anno scorso l’Isis occupò la diga da cui i jihadisti vennero cacciati in breve tempo dai peshmerga curdi appoggiati dai cacciabombardieri statunitensi. Oggi il rischio di offensive dell’Isis in quel settore pare limitato e quando gli italiani raggiungeranno la diga, tra maggio e giugno del 2016, il fronte si sarà spostato ancora più a sud verso Mosul sempre che la città non sia già caduta nelle mani delle forze governative.
Motivo in più per rendere inspiegabili le voci di invio di un contingente pesante, guidato dai bersaglieri della Brigata Garibaldi con carri Ariete, cingolati Dardo, artiglieria, elicotteri il cui costo supererà di certo i 50 milioni di euro annui. Un dispositivo da “prima linea” quindi, sovradimensionato per difendere una struttura fissa ma idoneo a far fronte a scontri ad alta intensità quando l’unica minaccia credibile per la diga potrebbero essere portata dagli attacchi terroristici. In realtà per proteggere l’infrastruttura e le maestranze sono più che sufficienti i militari curdi che attualmente presidiano l’area, integrabili eventualmente con personale qualificato di una società di sicurezza privata. Anche il fatto che si impieghino robusti contingenti militari per proteggere il cantiere di una ditta privata suscita non poche perplessità. Quante aziende italiane hanno cantieri aperti e maestranze all’opera in Paesi a rischio senza poter contare sulla sicurezza offerta da truppe italiane? Che dire poi degli armatori italiani hanno dovuto pagare (3mila euro al giorno) i team di fucilieri di Marina del reggimento San Marco che proteggevano petroliere e portacontainer dai pirati somali e oggi pagano guardie private senza avere accesso a scorte militari gratuite?
L’ipotesi che Trevi goda di simpatie nel governo e nel Pd sembra poi suffragata anche dalla presenza nel Consiglio d’amministrazione di Marta Dassù (come consigliere non esecutivo e indipendente), esperta di politica internazionale che è stata sottosegretario e viceministro degli Esteri con i governi Monti e Letta. Un’esperienza certo preziosa per un’azienda che opera in 80 Paesi nel mondo, ma è anche innegabile che l’incarico affidato alla Dassù, già consigliere di Massimo D’Alema e recentemente posta da Renzi all’interno del cda di Finmeccanica, indica uno stretto legame tra l’azienda romagnola e il Pd. Sul piano politico con questa missione (se andrà in porto) Renzi risponde positivamente alla richiesta statunitense di un maggior impegno militare italiano contro lo Stato Islamico salvaguardando, però, la priorità italiana di evitare il coinvolgimento in prima linea. Restano però le incertezze legate alla presenza italiana in un settore delicato dove la partita in gioco non è solo quella della Coalizione contro lo Stato Islamico.
La liberazione di Mosul dai jihadisti apre, infatti, nuovi scenari di tensione. Turchi e arabi non possono accettare che a strappare la città sunnita all’Isis siano le milizie scite irachene che hanno già “liberato” Tikrit, che diede i natali a Saddam Hussein divenuta una città fantasma in cui gli abitanti non rientrano per timore di rappresaglie governative. Per questo, e per proteggere la minoranza turcomanna, Ankara ha inviato truppe a nord di Mosul con il via libera dei curdi ma facendo infuriare Baghdad. Una ragione in più per valutare attentamente la convenienza che ha l’Italia nell’inviare truppe nel possibile teatro di un nuovo scontro tra sciti e sunniti.