Italia, ci vuole il «geologo condotto»
Uberto Crescenti: «La prevenzione costa poco, ma questo è il problema. Si preferisce intervenire dopo il dramma. Così girano più soldi».
«Cambiamenti climatici? Non c’entrano niente. La prevenzione? Sarebbe semplice, ma si preferisce ricostruire dopo le tragedie perché in questo modo girano più soldi». Il professor Uberto Crescenti è molto netto nei suoi giudizi a proposito della tremenda alluvione che nei giorni scorsi ha colpito Liguria e Toscana, in particolar modo la zona delle Cinque Terre, e rilancia la proposta di un “geologo condotto” che sostiene da almeno dieci anni. Docente di Geologia applicata all’Università di Chieti e già presidente della Società Geologica Italiana, Crescenti studia da una vita il fenomeno del dissesto idrogeologico italiano.
Professor Crescenti, a proposito della alluvione in questi giorni si è molto parlato di effetti dei cambiamenti climatici, di fenomeni eccezionali sempre più frequenti. Le cosa ne pensa?
E’ una sciocchezza. Questi fenomeni ci sono sempre stati. Fa parte della particolare situazione geomorfologica e climatica della nostra zona. Non è neanche intensificazione dei fenomeni. Ci siamo dimenticati dell’alluvione del 1966 a Firenze o di quella del 1951 nel Polesine? Il problema è che il nostro Paese è storicamente soggetto a fenomeni di frane e alluvioni e ci sono tantissimi studi al proposito, non certo da ieri. La prima raccolta sistematica di dati sulla franosità del territorio italiano è dell’inizio del XX secolo: il geografo Roberto Almagià riferisce in dettaglio sui fenomeni franosi accaduti in Italia tra il 1100 e il 1908.
E ovviamente non è restata un’opera isolata.
Assolutamente no. Nella seconda metà del XX secolo sono innumerevoli gli studi su questo argomento. Solo per citare i più importanti, basti ricordare l’imponente lavoro della Commissione De Marchi istituita dal governo dopo l’alluvione dell’Arno nel 1966, con il compito di analizzare i problemi relativi alla sistemazione idraulica e difesa del suolo. Il rapporto di quella Commissione prevedeva una spesa di 8.923 miliardi di lire per un trentennio a fronte di uno stato di dissesto diffuso. Poi il “Libro bianco” dell’Ordine nazionale dei geologi del 1975, un’inchiesta sulle calamità naturali promossa presso tutti gli 8.051 comuni italiani: allora ben 4mila di loro lamentavano di essere stati soggetti a frane o alluvioni. Poi, ancora, la documentata rassegna di Vincenzo Catenacci che prende in esame la situazione dal dopoguerra fino al 1990: ben 4568 territori comunali sono stati interessati da questi fenomeni, con 3488 vittime, tra cui 345 per alluvioni, 2447 per frane e 696 per dissesti idrogeologici non meglio specificati, con un ritmo medio di 6,8 morti al mese. Gli eventi più luttuosi sono quelli del Salernitano (1954), Vajont (1963) e Val di Stava (1985), rispettivamente con 297, 1917 e 269 vittime. E si potrebbe continuare ancora.
Ma a fronte di tutti questi studi, allora, non si sono mai presi provvedimenti da parte dei governi.
Non è corretto. In realtà tutti i governi hanno avuto ben presente il grave impatto socio-economico di frane e alluvioni. Per comprendere la portata del problema, basti ricordare che l’Italia, con 59 vittime all’anno per frana nell’ultimo secolo, è al 4° posto nel mondo dopo i paesi andini, la Cina e il Giappone; mentre a livello di danni – valutati in 1-2 miliardi di Euro all’anno, l’Italia è addirittura al secondo posto insieme a India e Usa, dopo il Giappone, con un rapporto danno/Pil dell’1,5 per mille. A fronte di questa situazione, dall’Unità d’Italia a oggi tutti i governi sono intervenuti con leggi, iniziative e finanziamenti. Con il passaggio poi delle competenze alle Regioni il quadro normativo si è fatto molto complesso.
Ma allora: gli studi ci sono, le leggi ci sono, perché ogni volta sembra si debba ricominciare da capo?
Il problema è che quando c’è la disgrazia tutti se ne occupano, poi quando si perde la memoria dell’evento, nessuno si occupa più della questione. Quello che invece può cambiare la situazione è un intervento costante, la gestione quotidiana del territorio. Ormai è accettato da tutti, esperti e amministratori, che la miglior difesa dagli eventi calamitosi è la previsione per la prevenzione dei loro effetti.
Eppure questo non accade…
Sì, infatti si investe ancora molto di più sul “dopo”. C’è un motivo: la prevenzione costa troppo poco, si preferisce intervenire dopo – e qui tutti sono corresponsabili – perché così girano più soldi. E oltretutto si invertono le responsabilità.
Cosa intende dire?
Quando ci sono queste calamità tutti i comuni chiedono l’intervento dello Stato, voglio i soldi per risanare, ed è sul governo centrale che si appuntano gli sguardi. Ma i veri gestori del territorio sono i comuni, è a loro che spetta mettere a bilancio il monitoraggio e lo studio del proprio territorio.
Lei da anni porta avanti una proposta precisa.
Certo, ci vuole il “geologo condotto”, a modello della vecchia figura del medico condotto. Quattro-cinque comuni possono mettersi insieme per avere un geologo, che vive sul territorio, che lo studia, che è in grado di prevedere cosa può accadere quando cadono 50 mm di pioggia, o 100, 200 e così via. Oggi, con i dati già a disposizione, e la possibilità di usare i modelli matematici, non è complicato tenere sotto osservazione un territorio e prevenire i danni più gravi, anzitutto le vite umane.
Ma pur avendo a disposizione un “geologo condotto”, si possono evitare certe calamità?
La gestione del territorio ovviamente prevede diversi livelli. Dal monitoraggio possiamo capire se c’è una possibilità di fare lavori di consolidamento, sicuramente c’è una manutenzione del territorio che è un dovere. Ricordiamo, ad esempio, che le conseguenze della alluvione di Sarno nel 1998 furono particolarmente tragiche a causa della totale mancanza di manutenzione del territorio, con alberi che hanno ostruito il naturale flusso delle acque. In altri casi, semplicemente, bisogna provvedere all’evacuazione tempestiva dei centri abitati, salvare una vita umana è più importante di tutti i possibili danni materiali. Ma appunto, per tutto questo è importante che ci sia una figura professionale capace di provvedere tutti questi dati. Sarebbe un’operazione a basso costo, ma sembra che sia proprio questo il problema.
Dai dati che lei cita, sembra che ci sia anche un problema di edificazione in luoghi a rischio.
Noi abbiamo già innumerevoli centri storici in zone a rischio. E’ ovvio che qui possiamo soltanto cercare di mitigare le conseguenze di eventuali eventi calamitosi. Il problema si pone soprattutto per i nuovi centri che vengono costruiti, e qui non ci sarebbe neanche bisogno di leggi basterebbe il buon senso. E’ ovvio che i nuovi centri dovrebbero essere edificati in zone protette. Purtroppo molto spesso le amministrazioni locali non usano il buon senso. Le faccio un esempio: il 12 dicembre 1982, lungo il versante adriatico marchigiano che da Ancona conduce a Falconara, si verificò un grandioso fenomeno franoso che coinvolse la litoranea tra queste due città per oltre 1.700 metri, e il retrostante versante del Montagnolo per circa 1.100 metri. Furono irrimediabilmente danneggiati due ospedali, la facoltà di Medicina dell’Università di Ancona, 800 abitazioni, con 3mila famiglie evacuate e grossi danni alle infrastrutture. Mi occupai personalmente del fenomeno, con un programma di ricerca finanziato dal CNR, che risultò corrispondere a un fenomeno molto antico, profondo, riattivatosi appunto nel 1982. La commissione di cui facevo parte concluse i lavori raccomandando alle amministrazioni di non utilizzare più quell’area a fini urbanistici e di procedere a interventi di bonifica superficiali che erano poco costosi. Ebbene, quelle amministrazioni procedettero in altra direzione investendo migliaia di miliardi di lire in progetti e programmi di consolidamento, come se fosse possibile fermare una frana millenaria, con periodi di ritorno secolari, legati anche alla sismicità locale. Ecco l’Italia va avanti così: interventi di consolidamento che costano cifre enormi e sono sostanzialmente inutili, invece di opere di prevenzione a basso costo e alta efficacia.