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RAPPORTO

Istigazione all'aborto, ecco le prove

Una donna su 5 subisce pressioni per abortire, da familiari, medici, datori di lavoro. E 2 donne su 3, se adeguatamente aiutate, scelgono per la vita. Sono dati presentati nel Rapporto 2013 della Comunità Papa Giovanni XXIII.

Vita e bioetica 03_05_2014
Una donna su 5 subisce pressioni per abortire

Le chiameremo Alice e Barbara, due mamme che fanno parte delle 573 donne aiutate nel 2013 dal Servizi Maternità difficile e vita della Comunità Papa Giovanni XXIII, un servizio che don Benzi attivò nel 1997. I dati sono stati presentati ieri a Bologna nel Rapporto 2013 sulle attività della comunità. Sia Alice che Barbara, ha ricordato Enrico Masini, responsabile del Servizio, fanno parte di quel 21% di donne che arriva alla Comunità sotto forti pressioni per farle abortire. La chiamano «istigazione all’aborto». Non immaginiamo però chissà quale disagio sociale, ma sempre più spesso sono ragazze della porta accanto che subiscono pressioni dai genitori, dal marito/compagno, dal datore di lavoro o da un medico.

Delle 573 donne aiutate, circa la metà sono italiane e la crisi ha incrementato questo dato. Poi ci sono le straniere, molte delle quali vittime della tratta del sesso schiavizzato. Spesso è un'amicizia che porta le mamme al contatto con la Comunità, un'amicizia che salva due vite, perché il 69% di quelle che arrivano indecise sull’aborto, alla fine continuano la gravidanza.

È il caso di Alice che nella sua testimonianza ha ricordato di quando «ha aperto gli occhi». 

«I miei genitori mi hanno portata ad abortire – racconta - ma quando sono andata per firmare il foglio e ho visto l’ecografia di mio figlio schiaffata lì sulla scrivania, anche se ho visto che era una cosa piccolissima, non ce l’ho fatta a dire lo tolgo». Alice ha 23 anni, un lavoro poco remunerativo e un “moroso” (il fidanzato) disoccupato, perciò i genitori le dicono di abortire. «Quando sono andata per firmare il foglio mia mamma era lì e continuava a dire: “A me non piace il tuo moroso”, e anche la dottoressa dava ragione a mia mamma: “Dai sei tanto giovane, ne farai altri di figli, ne troverai altri di morosi”. Nessuno si è preoccupato di spiegarmi che differenza c’era tra tenere o non tenere il figlio. Io piangevo e nessuno mi ha chiesto perché».

Barbara, invece – mi racconta Paola Dal Monte, l’animatrice della Comunità che risponde 24 ore su 24 al numero verde 800035036 – arriva grazie alla segnalazione di un operatore sanitario. Barbara ha 26 anni, nessun problema economico, sposata con già un figlio. Il marito le dice: «O abortisci, o ti lascio!» E lei non vuole perdere il marito. Il colloquio con gli operatori della Comunità dura 4 ore. «Ci siamo innanzitutto messi in ascolto - dice Paola - come facciamo sempre. A volte basta questo, perché spesso è un problema di solitudine e trovare qualcuno che ti accompagna davvero è già sufficiente per rimuovere gli ostacoli». Con Barbara, purtroppo, non sarà sufficiente.

«Mentre parlavamo - dice ancora Paola - Barbara ribadiva che se c’è una legge che lo permette allora l’aborto è lecito. Continuava a sostenere il suo dubbio con una frase: “Ma la legge me lo consente!”».

Esattamente il giorno dopo lo psichiatra ha rilasciato a Barbara, come previsto dalla famigerata Legge 194, un certificato che attestava il pericolo per la sua salute psichica. Il lasciapassare per l’aborto era pronto. Barbara, essendo alla 20ma settimana, ha dovuto essere sottoposta all’induzione del parto. Era una bambina che la Papa Giovanni XXIII ha chiamato Gemma, perché nata il giorno di S.Gemma Galgani. Gemma ha vissuto quei pochi secondi che aveva da vivere .

«Se è legale è lecito, è una delle obiezioni che ci sentiamo fare più spesso – dice ancora Paola –. La tanto sbandierata libertà della donna, richiamata dalla stessa Legge 194, nel concreto si trasforma sempre più spesso nella libertà per abortire. Noi lo vediamo, lo viviamo. La donna è sola con sé stessa e sempre più spesso vittima di pressioni di vario genere che la spingono verso l’aborto».

Alice, invece, ha “aperto gli occhi”. «Tutti a dire la loro… ma ad un certo punto ho aperto gli occhi. – racconta Alice -. Ok, ho 23 anni, di figli posso farne ancora, ma alla fine l’aborto l’avrei fatto io. Ora. E questa cosa non mi è andata giù e ho detto: “Io non sono esente dal non fare sacrifici, mi rimbocco le maniche, mi tengo mio figlio”». 

Don Benzi diceva che in ogni aborto c’è “un vorrei, ma non posso”, una richiesta di aiuto a cui bisogna rispondere. La Comunità oltre ad attivare i servizi sociali laddove necessario, ci si mette in prima persona a rispondere: aiuti morali, ma anche materiali, perfino l’accoglienza in case famiglia o le cosiddette “famiglie aperte”, disponibilità all’affidamento (anche diurno), disponibilità ad accogliere (anche per sempre) bambini (anche con handicap).

Alice, che i genitori hanno cacciato di casa dopo che aveva scelto di tenere il figlio, è andata in una casa famiglia della Comunità. Ed ora sta aspettando che nasca sua figlio. «Non me la son sentita di uccidere una vita. – conclude Alice - Ci sarei stata male io. Anche se era un essere di un millimetro era sempre dentro di me. Quello che mi fa rabbia è non essere stata aiutata dalla mia famiglia e dall’ospedale. Se non avessi avuto la fortuna di essere stata indirizzata verso chi poteva aiutarmi adesso io avrei abortito perché mi mettevano addosso uno stress tale che non ce l’avrei fatta. Adesso non vedo l’ora che nasca mio figlio. Tutto il resto si vedrà».