Israeliani fuori da Gaza, una ritirata con molti significati
Ascolta la versione audio dell'articolo
Cogliendo di sorpresa osservatori e corrispondenti, Israele ha ritirato la brigata dell’esercito che occupava Khan Yunis. Le ragioni di questa mossa a sorpresa sono molte, da Biden all'Iran.
Cogliendo di sorpresa osservatori e corrispondenti, Israele ha ritirato la brigata dell’esercito che occupava Khan Yunis, nel sud della Striscia di Gaza. Khan Yunis, luogo natale del partito islamista Hamas, è ancora (almeno simbolicamente) al cuore del suo schieramento. I suoi capi, compresi Mohammed Deif, la mente del pogrom del 7 ottobre e Yahya Sinwar, vengono entrambi di Khan Yunis. La più sofisticata rete di tunnel si trovava sempre lì, nel Sud della Striscia di Gaza. Il ritiro dell’esercito israeliano (Idf) proprio da quel settore, può essere interpretato in vari modi, ma è comunque il segnale di un cambio radicale di strategia. Non che la guerra sia sul punto di finire, però. Il premier Benjamin Netanyahu lo ha detto chiaramente, in un suo discorso televisivo di lunedì (8 aprile): la guerra continua e gli israeliani attaccheranno Rafah, ultima roccaforte di Hamas.
Che si tratti di un cambio radicale di strategia lo spiega bene l’analista militare del Jerusalem Post, Yonah Jeremy Bob: «Negli ultimi due mesi, la linea è stata che finché l’Idf ha mantenuto le sue forze a Khan Yunis, ha agito come una morsa su Hamas, e in qualsiasi momento il gruppo terroristico avrebbe boccheggiato abbastanza da accettare un accordo. Il ritiro delle forze da Khan Yunis, avvenuto domenica, pone fine a questa strategia e rappresenta un’ammissione di fallimento».
Questa decisione arriva un giorno dopo la telefonata di Joe Biden al premier israeliano. Una telefonata dura, senza precedenti, in cui il presidente Usa ha minacciato di “cambiare linea” su Israele se questo non avesse adottato misure concrete per migliorare la situazione umanitaria a Gaza. La telefonata era a sua volta causata dall’uccisione di sette volontari della Ong World Central Kitchen, per un errore ammesso dall’Idf, a seguito del quale due generali di brigata sono stati rimossi dal loro incarico. Netanyahu, per placare le ire del presidente Usa ha promesso la riapertura del valico di Erez, chiuso dal 7 ottobre e l’uso del porto di Ashdod per lo sbarco di aiuti umanitari.
La pressione è anche interna. La fine della settimana scorsa ha registrato le più imponenti manifestazioni in Israele contro l’esecutivo Netanyahu. I manifestanti, comunque, non chiedono la fine delle ostilità, ma protestano per la mancata liberazione degli ostaggi, più di cento ancora nelle mani di Hamas, di cui non si conosce ancora la sorte, a sei mesi dal loro rapimento nel pogrom del 7 ottobre.
Il ritiro delle truppe israeliane avviene, infatti, anche in concomitanza con la riapertura di una nuova trattativa per la liberazione degli ostaggi. L’ultima proposta formulata dalla Cia, nel corso dei negoziati al Cairo, domenica, prevede lo scambio di 40 ostaggi israeliani, di cui Hamas dovrà pubblicare la lista in anticipo, contro 900 prigionieri palestinesi, di cui 100 condannati per terrorismo. Lo scambio dovrebbe avvenire nel corso di un cessate-il-fuoco temporaneo della durata di sei settimane. Gli Usa propongono anche il ritorno di 150mila sfollati palestinesi, una misura contestata da Israele che propone un numero più basso, meno della metà, perché teme infiltrazioni di terroristi nella massa di profughi. Teme, dunque, che Hamas possa ricostituire le sue posizioni nei territori da cui è stato sloggiato negli ultimi sei mesi.
Hamas non ha ufficialmente commentato le ultime proposte, ma ha fatto trapelare alle agenzie stampa internazionali la sua intenzione di rifiutarle. Un portavoce di Hamas ha dichiarato alla Reuters, lunedì 8 aprile: «Respingiamo l’attuale proposta che ci è stata presentata. Essenzialmente non è diversa dalle proposte precedenti: l'ultima proposta non include il ritiro dell'esercito israeliano da Gaza». Alla televisione Al Jazeera, altre fonti di Hamas avevano affermato, lo stesso giorno: «Israele sta ancora frapponendo ostacoli al raggiungimento di un accordo. La risposta israeliana che ci è stata data non include un cessate il fuoco permanente e non include il ritiro delle forze dell’Idf dalla Striscia. Inoltre, Israele propone che gli sfollati ritornino nei campi e non nelle loro zone residenziali e nelle loro case».
Senza accordi sugli ostaggi, la guerra continua. È la linea da sempre dichiarata dal governo Netanyahu e ribadita dal premier anche nel suo discorso di domenica. Lunedì ha aggiunto la ferma intenzione di proseguire le operazioni militari, fino all’ultima roccaforte di Hamas: «Israele ha fissato una data per l'inizio dell'operazione di Rafah: Succederà - c'è una data». Spiegando che: «Questa vittoria richiede l'ingresso a Rafah e l'eliminazione dei battaglioni terroristici». Insomma, nonostante il ritiro da Khan Yunis, la guerra continua. Una delegazione del Ministero della Difesa israeliano è in partenza per gli Usa. L’amministrazione Biden resta fermamente contraria a un’operazione a Rafah, che non è solo l’ultimo bastione di Hamas, ma anche l’ultimo rifugio per un milione e mezzo di sfollati palestinesi. Una battaglia a Rafah comporterebbe inevitabilmente un bagno di sangue. Cinicamente parlando: sarebbe veleno puro per la campagna elettorale di Biden.
Qualunque sia la spiegazione immediata del ritiro da Khan Yunis, da un punto di vista strategico Israele deve tenere più uomini disponibili per l’eventuale apertura di un nuovo fronte a Nord, contro l’Iran e la sua rete di alleati locali (Hezbollah e milizie sciite in Siria e Iraq). Dopo l’uccisione di un generale della Guardia Rivoluzionaria a Damasco, Teheran promette vendetta. Come e quando non si sa. Israele teme anche un attacco diretto dal territorio iraniano, attacchi terroristici agli interessi israeliani nel mondo o lo scoppio del fronte Nord. Per sicurezza, 30 ambasciate sono state chiuse. Mentre sul fronte libanese si continua a combattere: a seguito di un attacco con droni nel Nord di Israele, l’Idf ha ucciso Ali Ahmed Hassin, uno dei comandanti di brigata di Hezbollah. Il richiamo di uomini e mezzi dal fronte di Gaza, dunque, può essere letto anche come un “arrocco” in vista di possibili attacchi da altre direzioni.