Israele piange i ragazzi In Cisgiordania è aria di guerra
Eyal, Gilad e Naftali, rapiti per 18 giorni e ritrovati morti lunedì, sono stati sepolti ieri sera prima del tramonto. Si imbocca una nuova strada senza uscita, se israeliani e palestinesi non sapranno affrontare due loro scomode verità.
Li hanno sepolti insieme ieri pomeriggio Eyal, Gilad e Naftali. Con un Paese intero che si è fermato a piangere i tre ragazzi della scuola rabbinica ritrovati cadavere appena una manciata di ore fa. Sepolti prima del tramonto, come vuole una delle tante prescrizioni religiose che accomunano tra loro - ben più dell'odio - ebrei e musulmani. Sepolti in una serata che si annunciava tesissima in Israele e non solo per i raid già cominciati nuovamente su Gaza. Ma anche per la voglia di «farsi giustizia da sé» di una fetta non proprio piccola della destra nazionalista ebraica: ci sono stati arresti ieri a Gerusalemme nei confronti di giovani con la kippah che cercavano il primo arabo da colpire. E se questo succedeva nella Città Santa figuriamoci quale poteva essere il clima intorno alle colonie della Cisgiordania.
Ma se ieri è stato il momento delle emozioni forti, il «giorno dopo» il tragico epilogo della vicenda di Eyal, Gilad e Naftali in realtà comincia solo adesso. Insieme alla solita giaculatoria di parole sulla reazione di Israele: «risposta forte», «deterrenza», «moderazione», «attacchi mirati», «punizione», «proporzionalità»... Lo stesso governo israeliano è diviso sull'argomento: ci sono i fautori di un'operazione in grande stile a Gaza - il ministro degli esteri Lieberman ha parlato ieri di uno «Scudo di difesa numero 2», evocando il massiccio intervento in Cisgiordania deciso da Sharon nel 2002 (quello dell'assedio alla basilica della Natività a Betlemme, per intenderci). E dall'altra parte ci sono quelli molto meno entusiasti alla prospettiva di una nuova guerra a tutto campo con i palestinesi, anche alla luce di quanto sta succedendo in Siria ed Iraq, che alla fine sono molto più vicine di quanto sembri. Quanto la spaccatura sia profonda lo testimonia il fatto che il governo israeliano sapeva bene ciò che i giornali fino a ieri non potevano scrivere; e cioè che fin dall'inizio in queste tre settimane si stavano cercando i cadaveri dei tre ragazzi. Perché già nell'automobile del sequestro - ritrovata la mattina dopo - erano state rinvenute macchie di sangue; e riascoltando la disperata telefonata alla polizia con cui i giovani studenti cercavano di dare l'allarme si erano sentiti degli spari.
Dunque la risposta di Israele in realtà è già cominciata in queste settimane, con gli arresti degli ex detenuti di Hamas liberati nello scambio con il soldato Gilad Shalit. E soprattutto con l'indicazione di Hamas come responsabile politico del rapimento dei tre ragazzi; e il corollario della pressione sul presidente palestinese Abu Mazen, reo di avere scelto la strada del governo di unità nazionale con la formazione islamista una volta naufragata - in aprile - l'ennesima tornata dell'etereo negoziato di pace messo in piedi dall'amministrazione Obama. Adesso però è la piazza israeliana a chiedere una «lezione più dura» nei confronti di Hamas. E il pericolo di una drammatica escalation è sotto gli occhi di tutti.
Dall'altro lato della barricata i primi a sparire a Gaza sono stati i leader di Hamas, che sanno benissimo di essere oggi il bersaglio politicamente più facile: un attacco aereo che togliesse di mezzo un loro esponente di primo piano sarebbe l'opzione numero uno del governo israeliano. Ma qualcuno crede sul serio che un'azione di questo tipo funzionerebbe come deterrente? Se c'è una cosa che non manca all'estremismo palestinese è la mano d'opera: tolto di mezzo un leader o un pericoloso assassino ne sorgerà un altro.
Siamo quindi alla solita strada senza uscita. Ed è facile prevedere che - come abbiamo già visto tante altre volte - ci attendono giornate segnate da razzi e rappresaglie, con una folle corsa ad alzare il tiro. Questo tipo di risposta, però, è anche quella che permette tanto a Israele quanto ai palestinesi di non fare i conti con due verità scomode, alle quali si preferirà continuare a non guardare. La prima - ed è una verità scomoda per Israele - è che a mettere in pericolo i ragazzi che studiano nelle yeshivà è per primo il fanatismo di quel gruppo del tutto particolare di coloni che vivono nel cuore di Hebron, che non disdegnano alcun tipo di provocazione nei confronti dei 160 mila palestinesi che vivono intorno a loro nella città della tomba di Abramo. Chi si dice amico di Israele provi a farsi raccontare da qualche soldato israeliano qual è il tipo di servizio che si trova a svolgere a Hebron; ascolterà racconti un po' sorprendenti. Storie di provocazioni e anche violenze che - senza ovviamente giustificarlo - dicono il contesto in cui cresce questo odio dei palestinesi verso gli ebrei in quanto tali.
La seconda - ed è una verità scomoda per i palestinesi - è che, più che con le sigle di un movimento o l'altro, tutta questa vicenda probabilmente ha a che fare con il potere di un clan locale, quello della famiglia Qawasmeh, che senza alcun bisogno di un ordine studiato a tavolino dai vertici di Hamas può decidere di gettare quattro milioni di palestinesi nell'ennesima situazione da incubo proprio mentre politicamente la Palestina era insperabilmente riuscita a uscire dall'angolo. Chi si dice amico dei palestinesi provi a chiedersi se l'«occupazione israeliana» - alla fine - non sia la fortuna più grande per chi, da Ramallah a Hebron, ha sempre messo gli interessi del proprio clan saldamente davanti a quelli del proprio popolo.