Israele-Palestina: due popoli in due Stati, formula vecchia
Non c’è giorno che la cronaca non registri un palestinese vittima delle forze di sicurezza israeliane. Ma questo accade anche tra gli ebrei, uccisi in attentati. La formula della pace, "Israele e Palestina, due popoli in due Stati", sembra non reggere alla prova del tempo. Interviste a mons. Sabbah (patriarca emerito di Gerusalemme) e a Jamil Kassissieh, ambasciatore della Palestina in Vaticano.
Non c’è giorno che la cronaca non registri un palestinese vittima delle forze di sicurezza israeliane. Ma questo accade anche tra gli ebrei, uccisi in attentati, nel più classico degli obiettivi: alle fermate degli autobus o con speronamenti tra automobili. L’ultimo fatto di sangue si è verificato a Gerusalemme lo scorso 23 novembre. Una scia di morti che prosegue, ormai, da oltre cent’anni e, che non lascia presagire nulla di buono per il futuro. Dall’inizio dell’anno, i palestinesi uccisi dalle forze di sicurezza israeliane sono 216.
«Un accordo con i palestinesi, basato su “Due stati per due popoli”, è la cosa giusta per la sicurezza di Israele, per la sua economia e per il futuro dei nostri figli». La condizione, dopo aver detto che la maggior parte degli israeliani, lui compreso, è a favore di questa soluzione, è solo una: «il futuro Stato palestinese dovrà essere pacifico, un luogo che non diventi una base dalla quale si possa minacciare il benessere e la stessa esistenza di Israele. E che Israele abbia la capacità di proteggere la sicurezza di tutti i suoi cittadini in ogni momento». Così si è espresso l’attuale primo ministro israeliano, Yair Lapid, nel corso dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite dello scorso mese di settembre, sollecitando tutti i paesi musulmani, dall'Indonesia all'Arabia Saudita, a riconoscere e rappacificarsi con Israele. Ai partecipanti all’Assemblea sono tornate alla mente le parole pronunciate, sempre in quella sede, dall’allora primo ministro Yitzhak Rabin, insignito del premio Nobel per la Pace nel 1994 e assassinato, nel novembre del 1995, da un ebreo di estrema destra, che sperava, proponendo la stessa soluzione di “Due Stati, due popoli”, di porre fine al conflitto tra israeliani e palestinesi, risalente al lontano 1914.
Lapid sapeva bene, però, che le sue parole non sarebbero state accolte favorevolmente dal principale partito di opposizione israeliano: il Likud. La reazione stizzita non si è fatta attendere: «Ha formato il primo governo israelo-palestinese, ora vuole stabilire uno stato palestinese al confine tra Kfar Saba, Netanya e l'aeroporto Ben-Gurion e consegnare i territori della patria ai nostri nemici», ha dichiarato il portavoce del Likud. Ma non solo: «Per anni Netanyahu è riuscito a rimuovere la questione palestinese dall'agenda mondiale, mentre Lapid ha riportato Abu Mazen in prima linea in meno di un anno». Infatti, rimuovere dall’agenda internazionale la “questione palestinese”, distogliere dai riflettori della stampa mondiale il tema della pace in quel lembo di terra martoriato, è stato l’obiettivo principale di Benjamin Netanyahu, nel corso del suo lungo mandato. E, probabilmente, sarà ancora questa la priorità nel prossimo esecutivo sotto la sua guida.
La prima stesura dell'ipotesi dei "due stati", per la soluzione del conflitto risale alla risoluzione 181 dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 29 novembre 1947, che raccomandava la creazione di due stati indipendenti, uno arabo ed uno ebraico, nel territorio della Palestina storica. Sempre il 29 novembre, ma del 2012, con la risoluzione 67/19 l'Onu riconobbe lo status di osservatore permanente allo Stato della Palestina. Da allora, acqua nel Giordano ne è passata molta, ma sul piano effettivo ci si è impantanati.
«Bisogna dire – sottolinea Michel Sabbah, patriarca emerito della Chiesa Madre di Gerusalemme, seminarista nel 1948 a Beit Jala - che Israele nel passato voleva creare uno Stato palestinese, per evitare la “bomba” demografica araba all’interno d’Israele. Poi, improvvisamente, ha cambiato idea: no ad uno stato palestinese indipendente, ma al riconoscimento di una forma di autonomia, dipendente da Israele, ovvero una sottomissione della Palestina al regime militare israeliano». Va anche detto che le terre lasciate dai profughi, costretti ad abbandonarle in seguito alle guerre del 1948 e 1967 e attualmente amministrate da Israele, restano di loro proprietà, nonostante il trascorrere del tempo e dei cambi di governo. Infatti, la legge internazionale stabilisce che né l’occupazione, né la sovranità eliminano il diritto alla proprietà privata. La “soluzione demografica” si risolverebbe, per Israele, solamente con l’applicazione delle risoluzioni Onu. Va da sé che questo comporterebbe, però, la restituzione ai palestinesi del 23% del territorio occupato da Israele.
“Due stati per due popoli” o “un’unica nazione” dove tra ebrei e palestinesi vi sia uguaglianza di diritti? È questa la domanda che si pone, in un recente articolo pubblicato su Civiltà Cattolica, p. David Neahaus, gesuita di origine ebrea nato a Johannesburg e battezzato nella Chiesa cattolica a Gerusalemme all’età di 25 anni. «Poiché l’eventualità della ripartizione - in una realtà in cui Israele ha quasi annesso gran parte dei territori occupati durante la guerra del 1967 - sembra ogni giorno più dubbia, questo potrebbe essere il momento giusto per rafforzare la coscienza della necessità di una lotta per l'uguaglianza di israeliani e palestinesi, in qualunque quadro politico possa evolversi la situazione (due stati o uno)» scrive p. Neahaus. Dunque. A parere del padre gesuita, viene a cadere la risoluzione 181 dell’Onu, che divideva la Palestina in due stati: uno ebraico e l’altro arabo-palestinese.
Non le sembra monsignor Sabbah che la creazione di uno stato binazionale, nel quale tutti i cittadini godrebbero degli stessi diritti, implicherebbe una rinuncia alla propria identità da parte di Israele?
Israele vuole uno stato tutto per sé. Ma è una contraddizione, poiché confiscando e occupando territori, i palestinesi continueranno a stare nelle proprie terre e andranno ad aumentare la loro presenza dentro lo Stato d’Israele. Vi è poi un ulteriore grave pericolo implicito in questa soluzione: un solo stato con due popoli, col sistema dell’apartheid, porterà ad un conflitto permanente.
«Ci sarà uguaglianza tra palestinesi e israeliani - aggiunge Issa Jamil Kassissieh, ambasciatore della Palestina presso la Santa Sede – solamente quando il popolo palestinese, sia cristiani che musulmani, potranno vivere in pace e nel reciproco rispetto all’interno dei confini internazionali dei due stati di Israele e Palestina. Ma gli israeliani hanno imposto la separazione tra Gerusalemme e il resto della Palestina, oltre alla confisca di numerose terre con la conseguente divisione di famiglie tramite leggi irragionevoli».
Monsignor Sabbah, esistono ancora forze politiche e gruppi presenti nella società favorevoli alla soluzione “Dei due stati”?
È l’unica soluzione possibile per portare una pace stabile e duratura in Medio Oriente.
Qual è la posizione della Santa Sede al riguardo?
La Santa Sede appoggia la risoluzione adottata dalle Nazione Unite: “Due stati, due popoli”. Non mi risulta che abbia modificato la sua scelta.
«Ha ragione Sua Beatitudine - sottolinea l’ambasciatore Kassissieh - “Due Stati e due popoli” è la posizione della Santa Sede, che ha riconosciuto, con il trattato firmato tra il Vaticano e la Palestina il 26 giugno del 2015, i confini del 1967, invitando le parti rivali a sedersi al tavolo dei negoziati per arrivare a questa soluzione”».
Ma cosa pensa, dunque, la Santa Sede?
Seguo con preoccupazione l’aumento della violenza e degli scontri che da mesi avvengono nello Stato di Palestina e in quello di Israele – ha detto papa Francesco durante l’Angelus del 27 novembre scorso -. Due vili attentati a Gerusalemme hanno ferito tante persone e ucciso un ragazzo israeliano, e lo stesso giorno, durante gli scontri armati a Nablus, è morto un ragazzo palestinese. La violenza uccide il futuro, spezzando la vita dei più giovani e indebolendo le speranze di pace. Preghiamo per questi giovani morti e per le loro famiglie, in particolare per le loro mamme. Auspico che le autorità israeliane e palestinesi abbiano maggiormente a cuore la ricerca del dialogo, costruendo la fiducia reciproca, senza la quale non ci sarà mai una soluzione di pace in Terra Santa.
Ambasciatore, ma i cristiani sono sempre meno in Palestina, appena l’1%, mentre in Israele sono al 2,6%. «Come diceva il nostro presidente Yasser Arafat: “Non c’è Palestina senza cristiani”. Questa è la nostra identità nazionale. In Israele, io vivo a Gerusalemme, i cristiani sono in aumento grazie agli immigrati indiani, filippini e slavi. Lavorano nelle fabbriche, nelle aziende, mentre molte donne svolgono lavori domestici nelle famiglie ebraiche. In Palestina, invece, non c’è lavoro e non c’è la possibilità di gestire autonomamente l’economia senza il placet di Israele. Questo stato di cose favorisce l’emigrazione all’estero, ma non solo per motivi di sopravvivenza economica, ma anche per poter vivere in pace, senza l’incubo di svegliarsi la notte con i soldati che perquisiscono la casa».
Come vede il futuro della Palestina?
Le recenti elezioni israeliane hanno prodotto uno dei governi più estremisti della sua storia. Ma la speranza è l’ultima a morire, ci auguriamo di trovare tra i suoi rappresentanti coloro che credono “nel potere del diritto” e non “nel diritto del popolo”. Devono sapere che la soluzione non sta nella forza delle pallottole e delle uccisioni. E come ha detto Sua Santità il Papa, preghiamo e lavoriamo per promuovere il messaggio del Re della Pace, specialmente in questi giorni in cui stiamo per accoglierlo nella culla di Betlemme. È indispensabile deporre le armi e iniziare veramente un dialogo che porti alla pace tra i due popoli.