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GAZA

Israele calcola i costi di una guerra risolutiva

Si prepara un'offensiva di terra israeliana contro Gaza. Manca la decisione "politica" che tarda per l'incertezza dovuta ai costi umani, economici e politici di una guerra che dovrebbe essere finalizzata all'eliminazione di Hamas. 

Esteri 12_07_2014
Militari israeliani

Le operazioni militari delle forze israeliane sembrano indicare un imminente attacco terrestre alla Striscia di Gaza. Lo conferma l’allertamento di 40 mila riservisti dei quali 15 mila già richiamati, il concentramento di tre brigate meccanizzate intorno al territorio palestinese in mano alle milizie di Hamas e numerose dichiarazioni dei vertici politici e militari di Gerusalemme.

L'esercito ha bisogno ''solo di una direttiva politica'' per dare inizio a una possibile operazione militare di terra nella Striscia di Gaza, ha detto il capo di stato maggiore israeliano, generale Benny Gantz, durante una visita in una base di paracadutisti. Il portavoce dell'Esercito Peter Lerner valuta che nei prossimi giorni potrebbero essere spostate un'altra brigata o due verso la Striscia precisando che “l'esercito è in stato di allerta anche sul fronte settentrionale” dopo il lancio di due razzi sul territorio della Galilea dal Libano meridionale. Il rischio che il braccio di ferro con Hamas si allarghi al Libano del sud e forse al Sinai egiziano (da dove mercoledì sono stati lanciati tre razzi contro Israele) è concreto, anche se, per ora, solo teorico, tenuto conto che Hezbollah è impegnato con le sue migliori unità a combattere in Siria al fianco dei soldati di Bashar Assad.

In Occidente molti temono che un’eventuale offensiva terrestre israeliana possa contribuire a destabilizzare una regione già esplosiva o possa favorire l’affermarsi anche tra i palestinesi del jihadismo sunnita, espresso dal Califfato proclamato da Abu Bakr al-Baghdadi in Iraq e Siria.

Il presidente Shimon Peres ha ribadito che un attacco terrestre a Gaza potrà essere scongiurato solo se Hamas cesserà il lancio di razzi contro il territorio israeliano, dei quali peraltro il 90% pare sia stato intercettato dal sistema difensivo Iron Dome. Il Segretario generale delle Nazioni Unite, Ban ki-moon ha riconosciuto (bontà sua) il diritto a difendersi dello Stato ebraico ma ha invitato a non ricorrere a un uso sproporzionato della forza. Più curiosa la posizione di Washington.

Mercoledì la portavoce del Dipartimento di stato Usa, Jennifer Psaki, ha detto che “nessuno vuole assistere ad un'invasione di Gaza da parte di Israele" e Barack Obama ha telefonato al premier Benjamin Netanyahu per comunicargli la disponibilità a mediare tra israeliani e palestinesi, per far cessare le ostilità. Ipotesi ambigua, considerato che Washington non ha rapporti diplomatici con Hamas, che considera un’organizzazione terroristica. Ieri però l’ambasciatore statunitense a Gerusalemme, Dan Shapiro, ha detto che Israele avrà "il pieno sostegno statunitense" nel caso in cui dovesse lanciare un'operazione di terra nella Striscia di Gaza.

Molti analisti, soprattutto in Israele, concordano nel ritenere gli attacchi di Hamas un sintomo della sua crescente debolezza. Nella Striscia il suo potere vacilla e il consenso popolare è in calo costante a causa anche di una crisi economica devastante determinata dal venire meno dei suoi “sponsor”. Il nuovo governo egiziano del presidente (generale) al-Sisi considera Hamas un nemico. La frontiera di Rafah è stata riaperta solo in questi giorni per far uscire dalla Striscia i palestinesi feriti, mentre gli egiziani hanno smantellato gran parte dei tunnel che consentono ad Hamas di rifornire la Striscia con il contrabbando e di approvvigionarsi di armi e munizioni. Anche se non potrà mai sostenere apertamente un’offensiva israeliana, il Cairo guarda con sospetto Hamas. Innanzitutto perché fa parte di quel movimento dei Fratelli Musulmani che i militari egiziani hanno messo fuorilegge, dopo aver deposto il presidente Mohamed Morsi, e poi perché il gruppo palestinese tollera la presenza a Gaza di gruppi qaedisti che si sono allargati al Sinai egiziano dando filo da torcere alle forze di sicurezza del Cairo.

Hamas sembra puntare sulla ripresa delle ostilità per riguadagnare popolarità e ricompattare i palestinesi e gli arabi al suo fianco, dopo aver perso il supporto di quasi tutti i suoi alleati. Oltre al governo egiziano di Morsi, Hamas poteva contare anche sul generoso supporto del Qatar, da mesi costretto a rinunciare almeno ufficialmente a sostenere i Fratelli Musulmani dalle dure pressioni delle altre monarchie sunnite del Golfo guidate dai sauditi. Resta l’appoggio dell’Iran, tangibile in termini di forniture di armi, triangolate dal Sudan, ma lontano sul piano geografico quanto limitato su quello finanziario.

Per queste ragioni, Israele ha l’opportunità politica e militare di eliminare Hamas pur restando poi il dilemma di cosa fare della Striscia di Gaza: consegnarla all’Autorità Nazionale Palestinese o a un’amministrazione internazionale o egiziana. In ogni caso, il problema dovrebbe venire gestito dalla comunità internazionale.

Hamas si dice “pronto a combattere per mesi” ma può farlo solo se Israele si limita ai raid aerei e alle incursioni mirate contro le rampe di razzi e i comandanti di Hamas. Se Tsahal prendesse il controllo totale della Striscia le milizie islamiste delle Brigate Ezzedine el Kassam (braccio armato di Hamas) e i loro alleati della Jihad Islamica palestinese verrebbero spazzate via con i loro comandanti, ma il prezzo da pagare, in termini di perdite tra le truppe, tra i miliziani e soprattutto tra i civili sarebbe ben superiore al centinaio di morti registrati in questi giorni. Se davvero “l'obiettivo strategico è mettere fine al lancio di razzi sulle nostre città" come ha detto il portavoce del premier israeliano Mark Regev, allora questa volta Israele deve andare fino in fondo e puntare a una vittoria totale ottenibile solo con un’operazione ad alta intensità: in altre parole, una vera guerra. Le condizioni politiche per una simile operazione sembrano esserci e nessuno si straccerà le vesti per Hamas, escluso forse il governo turco.

La questione di fondo è se, in tal caso, Israele potrà resistere alle innumerevoli pressioni dell’opinione pubblica e dei media internazionali che esorteranno Gerusalemme a fermarsi di fronte alle vittime civili palestinesi. Negli ultimi 20 anni, tutte le operazioni militari israeliane contro Hamas ed Hezbollah sono state interrotte a un passo dalla vittoria bellica totale per ragioni di opportunità politica. Oggi più che mai una vittoria tattica ma non totale, che lasciasse quindi in piedi Hamas, suonerebbe come una “vittoria di Pirro” per Gerusalemme che la propaganda di Hamas saprebbe abilmente trasformare in una sua vittoria.

In tutte le guerre asimmetriche, cioè quelle combattute tra un esercito regolare e una milizia, il primo ha bisogno di spazzare via il nemico per conseguire il successo, mentre alla seconda basta sopravvivere per proclamarsi vincitore.

Sul piano militare, ma anche politico ed economico, un’offensiva terrestre a Gaza dovrebbe fare i conti con queste valutazioni. Costerebbe molti morti (e circa 100 milioni di dollari al giorno) ma per Israele avrebbe un senso solo se improntata a ottenere una vittoria decisiva.