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L'ANALISI

Israele al voto, stavolta Netanyahu rischia grosso

Poco meno di sei milioni di israeliani (per l’esattezza 5 milioni 881 mila 696) sono chiamati alle urne per eleggere i 120 deputati della ventesima legislatura. Un rinnovo anticipato voluto da Benjamin Netanyahu, leader del partito di maggioranza relativa Likud, per contrasti nella sua coalizione di governo.

Esteri 17_03_2015
Benjamin Netanyahu, leader del partito di maggioranza relativa Likud

Poco meno di sei milioni di israeliani (per l’esattezza 5 milioni 881 mila 696) sono chiamati alle urne per eleggere i 120 deputati della ventesima legislatura. Un rinnovo anticipato voluto da Benjamin Netanyahu, leader del partito di maggioranza relativa Likud, per contrasti nella coalizione di governo da lui presieduta e soprattutto nella speranza di riuscire a varare una legge costituzionale che sancisca Israele come Stato nazionale degli ebrei.  Ma dai sondaggi di opinione, gli ultimi del 13 marzo, sembra che il suo progetto di uscire rafforzato da queste elezioni sia destinato a fallire: il Likud dovrebbe infatti perdere la maggioranza relativa, che passerebbe alla lista dell’Unione sionista, composta dal Partito laburista guidato da Isaac, ultimo esponente della dinastia politica degli Herzog, e da quello centrista Hatnuah dell’ex ministro della giustizia Tzipi Livni.  L’esito della competizione resta incerta per il gran numero di elettori indecisi e soprattutto per lo sforzo compiuto, in extremis, dai partiti nazionalisti e di destra di rappresentare le gravi incertezze e i rischi di una svolta a sinistra, sempreché questa – altra incognita – dovesse riuscire dopo sedici anni a portare al governo un suo primo ministro. 

Il sistema proporzionale puro ha portato a competere, come al solito, molti partiti, ma la novità dell’innalzamento al 3,25 per cento dello sbarramento per la conquista di almeno un seggio ha favorito la formazione di liste congiunte; e l’esempio politicamente più rilevante è quello della Lista araba unita, frutto dell’ imprevista, travagliata coalizione dei quattro partiti tradizionali (Balad, Hadash, espressione del Movimento islamico, Ta’al e United  Arab List) verso i quali si sono espressi i maggiori consensi della minoranza arabo-israeliana (un milione e 400 mila persone, il 20 per cento della popolazione): Che, vale ricordarlo, è composta soprattutto da musulmani, ma anche da cristiani, drusi e beduini. E che, senza distinzioni, non ha mai disdegnato di votare anche per candidati dei grandi partiti nazionali d’Israele.  La Lista unita potrebbe vincere 13 seggi, e se dovesse rappresentarsi come terza forza parlamentare, conseguirebbe rilevanti posizioni nell’apparato legislativo. Una prospettiva temuta dall’estrema destra e che pertanto ha infiammato la campagna elettorale.

Ventisei sono le liste in competizione, ma molte non supereranno certamente il quorum.  Fra queste quella dei Verdi (Ala Yarok); delle donne ultraortodosse (B’Zchutan) che reclamano gli stessi diritti di cui godono le “secolarizzate” ( a esempio, su occupazione, istruzione, ruolo nella comunità, trattamento in caso di divorzio);del Finance Party e addirittura del Pirate Party . Non dovrebbero esserci variazioni nelle rappresentanze parlamentari dei partiti confessionali, dei partiti laici e dell’estreme destra e sinistra. Saranno questi partiti, come sempre, a dare consistenza alla maggioranza parlamentare e alla coalizione di governo che, per tradizione, è chiamato a formare (dal presidente dello Stato Reuven Rivlin) il leader della lista che ha conseguito il maggior numero di seggi. 

Costui , stando ai sondaggi, dovrebbe essere il laburista Isaac Herzog. Ma se dovesse fallire, il mandato passerebbe, salvo clamorosi sovvertimenti dei risultati, a Benjamin Netanyahu che avrebbe maggiori probabilità di successo. Ad assicurarglielo sarebbero i partiti nazionalisti, di coloni e di estrema  destra (a cominciare da Yisrael Beitenu del russofono Avigdor Lieberman, attuale ministro degli Esteri, ma non alleato con la lista di Netanyahu) e quelli religiosi. Non si esclude addirittura che l’Unione sionista possa far parte di un governo di unità nazionale guidato da Netanyahu (sia Herzog sia la Livni si sono rifiutati di escludere tassativamente questa eventualità) , mentre la portavoce della Lista araba unita, Raja Zaatry, ha dato per certo che i deputati non faranno parte di alcun governo che «opprime il suo popolo», anche se  «dall’esterno faranno tutto il possibile per impedire a Netanyahu di formare un governo». 

É interessante notare che il mondo arabo auspica apertamente la vittoria del partito laburista; ed è naturale che tale evidenza sia stata rappresentata all’elettorato come ulteriore e ultima arma di convincimento degli indecisi, da esponenti del Likud confortati dalla condivisione di osservatori e analisti politici indipendenti.  Spiega questo atteggiamento il prof. Mordechai Kedar dell’università Bar Ilan, noto studioso di ideologia, politica e movimenti islamici dei Paesi arabi, che negli anni Novanta, militante in un movimento pacifista religioso, aveva suggerito l’ipotesi di un piano di pace in Medio Oriente conosciuto come “il piano degli otto Emirati palestinesi”, ma si era ben presto ricreduto. Oggi, evocando l’agenda del Medio Oriente impostata su stereotipi e immagini, afferma: «L’immagine che Herzog proietta è così debole che qualsiasi azione di forza Israele potrà pronunciare, sarà accolta con scherno. E la distanza tra quello scherno e una guerra totale è breve».  Herzog al timone del governo, aggiunge, «è il sogno più bello che il mondo arabo possa immaginare perché è la riprova che la società israeliana è stanca, esausta, senza motivazioni forti per garantire la sicurezza del Paese, pronta invece a pagare qualsiasi prezzo per un pezzo di carta su cui sia scritta la parola pace».  E, d’altra parte, si accentueranno le pressioni della Casa Bianca e dei Paesi arabi, desiderosi di cogliere il momento propizio prima che «gli israeliani si risveglino».

La persistente minaccia alla sicurezza della nazione israeliana, rappresentata dallo sviluppo militare del programma atomico iraniano e dal terrorismo fondamentalista islamico , è stata al centro della campagna elettorale del Likud. Per farne avvertire la gravità alla nazione, Benjamin Netanyahu si è recato a Washington per denunciarla dinanzi al Congresso degli Stati Uniti sfidando così l’avversione, più che il disappunto, del presidente Obama, impegnato insieme ad altri Paesi occidentali in un estenuante negoziato sull’industria nucleare con l’ostica leadership di Teheran.  Ma la fermezza di Netanyahu, pur riconosciuta persino dai suoi oppositori politici, non sembra sia valsa a modificare l’asprezza delle critiche di carattere personale anche verso sua moglie (rivelatesi poi pretestuose e infondate, come è emerso dal ritratto veritiero e affascinante della scrittrice Naomi Ragen) e sulle problematiche sociali più avvertite quali gli affitti, il costo della vita, le difficoltà dell’industria manifatturiera per le ovvie ripercussioni sull’ occupazione di lavoratori poco qualificati. Per molti osservatori mai nella storia israeliana un primo ministro è stato attaccato come lui.