Isidoro, un Dottore anche per il canto mozarabico
Il 25 aprile 1722 veniva proclamato Dottore della Chiesa sant’Isidoro di Siviglia. Sterminata la sua opera, che comprende una grande enciclopedia, scritti di teologia dogmatica, storia, ascetica, ecc. Scrisse anche un manuale di liturgia che ha una singolare importanza per il canto ecclesiastico in generale e per quello mozarabico (uno dei quattro repertori liturgici latini) in particolare.
Trecento anni fa, il 25 aprile 1722, l’ultimo dei Padri cristiani dell’antichità fu proclamato Dottore della Chiesa da Innocenzo XIII: sant’Isidoro di Siviglia. Diciassette anni dopo la sua morte, avvenuta nel 636, fu riconosciuto dall’VIII Concilio di Toledo Nostri quoque sæculi doctor egregius, ecclesiæ catholicæ novissimum decus, præcedentibus ætate postremus, doctrinæ comparatione non infimus, et quod maius est in sæculorum fine doctissimus, atque cum reverentia nominandus, Isidorus, cioè «dottore insigne del nostro secolo, recentissimo ornamento della Chiesa cattolica, l’ultimo in ordine di tempo, ma non il minimo per dottrina e, ciò che più conta, il più dotto di questi ultimi tempi, colui che deve chiamarsi con riverenza Isidoro» (Vives, ed., Concilios Visigóticos e Hispano-Romanos, Instituto Enrique Flórez, Barcelona 1963, pp. 276-277).
Era nato verso il 560 in una famiglia straordinaria: tra i suoi fratelli, il maggiore san Leandro, arcivescovo di Siviglia e grande amico di papa Gregorio Magno (c. 540-604), ne fu il tutore; san Fulgenzio fu vescovo di Astigi (l’odierna Écija, nella Spagna sud-occidentale) e santa Fiorentina, monaca benedettina. Succeduto al fratello a reggere l’arcidiocesi andalusa intorno al 600, guidò alcuni concili, in particolare il IV di Toledo nel 633, che uniformò liturgicamente il vasto regno dei Goti, Penisola iberica e Gallia Narbonense. «Il denominato Dottore Ispalense personifica la grandezza intellettuale e letteraria della Monarchia visigota, diventando una fonte inesauribile che per secoli inonderà l’attività intellettuale e culturale europea. Isidoro è il primo, dopo la caduta dell’Impero d’Occidente, a trasporre, oltretutto in forma lirica, l’eloquente eco di cui la grandezza di Roma è in grado di risuonare dalle sue stesse rovine. Come afferma il suo discepolo San Braulione: “Nessuna scienza, né umana né divina, gli fu nascosta; le penetrò e le percorse tutte e mai vi fu scrittore sacro e profano che si celasse alla sua diligenza”. Così il suo spirito, al contempo inafferrabile e sintetico, conquista qualsiasi conoscenza umana e riesce a compendiare l’intera civiltà greco-latina» (F. F. De Buján, Il potere politico nel pensiero di Isidoro di Siviglia, in Ravenna capitale. Uno sguardo ad Occidente. Romani e Goti, Isidoro di Siviglia, Vol. 1, Maggioli Editore, 2012, p. 1).
Il grande patrimonio culturale che forse andò perduto in Italia fu mantenuto in alcune zone dell’ex Impero Romano d’Occidente, soprattuto nella Spagna meridionale e nella Provenza (la provincia romana per antonomasia). Isidoro vuole contribuire alla conservazione di questo patrimonio e compila una grande enciclopedia di tutto il sapere di quel periodo, le Etymologiæ (Origines), in 20 libri. È la sua opera più famosa, per la quale sotto Giovanni Paolo II fu proposto come patrono di Internet. Ma il suo corpus comprende pure numerose opere di teologia dogmatica (Sententiarum libri tres e De fide catholica contra Iudæos), teologia biblica (Quæstiones in Vetus Testamentum, De ortu et obitu Patrum, De numeris qui in Sacra Scriptura occurunt e Allegoriæ quædam Sacræ Scripturæ), liturgia e disciplina ecclesiastica (De ecclesiasticis officiis e Regula monachorum), ascetica (Synonymorum libri duo), scienze profane (Differentiarum libri duo, De natura rerum e De ordine creaturarum), storia (Chronica maior, Historia Gothorum, De viris illustribus e De hæresibus), 11 lettere e 27 epigrammi. L’arcivescovo sivigliano, inoltre, dà prova di erudizione musicale, rivelandosi uno dei maggiori teorici ed elaboratori della riforma intrapresa da san Gregorio Magno.
La sua opera De ecclesiasticis officiis, che può essere considerata il primo «manuale di liturgia» della storia, ha anche singolare importanza per il canto ecclesiastico in generale e per il «canto mozarabico» in particolare. Circa l’utilità della musica per elevare le menti degli uomini a Dio, Isidoro insegna: Cuius psalterium idcirco cum melodia cantilenarum suavium ab Ecclesia frequentatur, quo facilius animi ad compunctionem flectantur, «si usa dalla Chiesa salmeggiare e cantare soavi melodie per indurre più facilmente gli animi alla compunzione» (De ecclesiasticis officiis, 1.5.1).
Il canto mozarabico è uno dei quattro repertori liturgici latini: il gregoriano, così chiamato dal suo restauratore san Gregorio Magno, è «il canto proprio della Chiesa Romana» (Pio X, Tra le sollecitudini, 3); l’ambrosiano, ancora in uso nell’arcidiocesi di Milano e in alcune chiese che gravitano nella sua orbita; il gallicano, cantato in passato nell’antica Chiesa francese e al presente soltanto nella cattedrale di Lione, Francia centro-orientale; e il mozarabico, proprio della liturgia visigotica, formatosi prima dell’invasione araba avvenuta nel 711 e oggi eseguito nella cappella del Corpus Christi della cattedrale di Toledo, Spagna centro-meridionale Questa cappella fu destinata nel 1504 alle celebrazioni secondo il rito mozarabico dall’allora arcivescovo, il cardinale Francisco Ximénes de Cisneros (1436-1517), che nel 1495 raccolse gli antichi codici e curò un’edizione dei testi per la Messa e l’Ufficio Divino. L’aggettivo «mozarabico» significa «“tra gli arabi” e indica i cristiani di Spagna viventi sotto l’impero moresco. Di qui il nome di liturgia, rito o canto mozarabico, che alcuni peraltro chiamerebbero più volentieri “ispano antico” e “ispano-visigotico”» (G. Cattin, La monodia nel medioevo, Vol. 2, EDT 1991, p. 204).
Di questo canto oggi sono accessibili una ventina di brani, desunti da alcuni manoscritti di Silos e soprattutto dall’Antifonario di León, redatto nel X secolo su un esemplare del VI-VII secolo. La liturgia ispano-mozarabica «riflette il carattere drammatico proprio delle popolazioni spagnole di ogni tempo e ravvisabile anche nella letteratura, nell’arte e nella musica» (G. Cattin, ibidem, p. 56). Sia la tendenza alla drammatizzazione sia le inflessioni popolari contraddistinguono anche il canto mozarabico. Qui si può ascoltare qualche esempio di questo arcaico canto cristiano: una provvidenziale chiamata a ritrovare le radici spirituali che hanno fatto la civiltà occidentale.