Irlanda del Nord: sotto l'Ue i nazionalismi non crepano
Un’autobomba a Derry (Londonderry) in Irlanda del Nord. Nessun morto, ma tanta paura per un conflitto che potrebbe scoppiare di nuovo, se non venisse raggiunto un accordo sulla Brexit. La dimostrazione che solo l'appartenenza all'Ue porta la pace? Niente affatto: è una delle tante crisi nazionali che continuano, sotto la coltre dell'Ue.
Un’autobomba a Bishop Street, nel pieno centro di Derry (Londonderry) in Irlanda del Nord. È esplosa alle 8 e un quarto di sera, di fronte alla sede, vuota a quell’ora, del tribunale locale. Nessun morto e nessun ferito, solo molta paura. E il timore che la questione nordirlandese, tornata in auge nel dibattito sulla Brexit, possa tornare a insanguinarsi, come ai tempi della Guerra Civile.
L’Irlanda del Nord è realmente in pace solo dal 1998, quando vennero siglati gli Accordi del Venerdì Santo fra i vari partiti dell’Irlanda del Nord e, contemporaneamente, quelli fra Repubblica di Irlanda e Regno Unito. L’appartenenza di entrambi i Paesi all’Unione Europea, sicuramente, ha facilitato il processo di pace. Anche la frontiera aperta fra l’Irlanda del Nord e la Repubblica irlandese ha permesso a molti cittadini di sentirsi parte di entrambi i Paesi.
Il vero nodo della Brexit riguarda proprio il cambiamento di questa condizione, è la questione che ha spinto alle dimissioni molti ministri del governo e fatto saltare il consenso del Parlamento britannico al piano di accordo proposto dalla premier May. Secondo il piano, desiderato da Bruxelles, la frontiera irlandese deve rimanere aperta, scongiurando dunque la ripresa delle ostilità fra repubblicani e unionisti. Ma la condizione dell’apertura di terra è, nei fatti, l’istituzione di una frontiera interna al Regno Unito, perché gli standard richiesti per la libera circolazione di persone, merci e capitali di Londra e Bruxelles, dopo la Brexit potrebbero divergere. Dunque, non solo Londra deve accettare controlli sulle merci che arrivano dall’Irlanda del Nord, ma deve anche rimanere entro l’unione doganale dell’Ue, almeno finché non si trovi una soluzione definitiva alla questione irlandese. Comunque la si guardi, una delle due parti ne uscirebbe sconfitta: con la frontiera di terra aperta vincerebbero i nordirlandesi repubblicani, mentre gli unionisti perderebbero perché si ritroverebbero tagliati fuori dal resto del Regno. Il Partito Unionista sostiene il governo May ed è l’ago della bilancia in Parlamento, dunque non può accettare un accordo simile. Se venisse di nuovo chiusa la frontiera di terra fra le due parti dell’Irlanda, al contrario, vincerebbero di nuovo gli unionisti. Ma i repubblicani, a quel punto, sconfitti e danneggiati economicamente, potrebbero tornare a sparare.
La bomba di Derry (Londonderry) può essere un’avvisaglia, un avvertimento, o semplicemente un modo per segnalare la presenza di un gruppo che vuole riprendere la lotta armata. Nessuna chiara rivendicazione: ci sono state solo prese di distanza e condanne categoriche da parte di tutti i partiti. Secondo Elisha McCallion, del Sinn Fein, la bomba è “uno shock per la comunità” locale. “Un atto di terrorismo senza senso”, per Arlene Foster, leader del Partito Unionista. “Non c’è alcuna giustificazione per questi atti di terrore che cercano di trascinare l’Irlanda del Nord ancora nella violenza e nel terrorismo”, ha dichiarato Simon Coveney, vicepremier della Repubblica di Irlanda. La notizia ha trovato scarsissima eco nei media nazionali e internazionali, specie perché non ha fatto morti. Ma è un’avvisaglia, appunto. Il segnale che nulla è mai passato del tutto. In caso di mancato accordo sulla Brexit, questi attentati potrebbero aumentare e amplificarsi.
Gli euro-federalisti sostengono che questa sia la dimostrazione lampante che uscire dall’Ue porta alla guerra. Perché, come hanno sempre ripetuto, “l’Ue ha portato la pace nel vecchio continente” (anche se esiste solo dal 1993, prima del Trattato di Maastricht, infatti, la Cee non era neppure paragonabile ad uno Stato sovranazionale). Quel che gli euro-federalisti non vedono, tuttavia, è che sotto la coltre dell’unità europea, le rivendicazioni nazionali sono rimaste tali e quali.
Gli esempi si sprecano. Limitandoci agli ultimi mesi, l’11 settembre scorso a Barcellona sfilavano centinaia di migliaia di cittadini indipendentisti. Chiedono la secessione dalla Spagna. I ministri del governo regionale indipendentista che, nel 2017, hanno organizzato un referendum per la separazione da Madrid (illegale secondo la Costituzione della Spagna) sono in carcere con accuse di tradimento che potrebbero comportare pene carcerarie dai 17 ai 25 anni. I separatisti catalani, oltre alla loro bandiera giallo-rossa, sventolavano anche quella blu-stellata europea, perché si sentono ancor più europeisti degli spagnoli e speravano in un aiuto da Bruxelles. Non hanno però fatto i conti con la realtà politica dell’Ue: essendo un condominio di Stati unitari, a Bruxelles ha voce in capitolo solo il governo di Madrid, non le sue regioni autonome. La reazione all’arresto degli indipendentisti è stata pari a zero.
Dal mese di novembre, in un altro paese membro fondatore dell’Ue, la Francia, assieme ai gilet gialli sfilavano numerosi militanti con bandiere a strisce bianche e nere che pochi non-francesi conoscono. Sono indipendentisti bretoni. La Bretagna è attualmente la patria di un forte movimento secessionista che chiede la separazione della penisola atlantica dalla Francia. I sondaggi in merito sono rari, in uno di essi, effettuato nel 2013, risultava che almeno 1 bretone su 5 fosse favorevole all’indipendenza. Chiaramente è un movimento meno visibile rispetto a quello dei nazionalisti della Corsica, che in passato hanno organizzato anche numerosi attentati.
In ottobre, è scoppiata l’ennesima crisi fra Romania e Ungheria, entrambi membri dell’Ue, sull’autonomia della minoranza ungherese che abita nella Romania settentrionale. Gran parte degli attuali confini rumeni deriva infatti dall’annessione di una grande fetta di Ungheria, dopo la Prima Guerra Mondiale e il collasso dell’Impero Austro-Ungarico. Né il comunismo, né l’Ue hanno spento la fiamma della minoranza degli ungheresi che si sono ritrovati dall’altra parte del confine. Mihai Tudose, premier rumeno, in ottobre ha detto: “Se vedo sventolare la bandiera degli Szekler (la minoranza ungherese, ndr) davanti alle istituzioni, loro sventoleranno assieme ad essa”. Temendo che fosse una velata minaccia di impiccagione dei membri della minoranza ungherese, è intervenuto direttamente il governo di Budapest con una vibrante protesta. “Sono parole totalmente inaccettabili, indegne dell’Europa e del Ventunesimo secolo”, ha dichiarato il ministro degli Esteri ungherese Peter Szijjarto.
Né sono risolte le questioni fra i Paesi entro i confini europei e quelle dei Paesi al di là degli stessi che aspirano a far parte dell’Ue. Domenica abbiamo assistito, nei telegiornali di tutto il mondo, ai violenti scontri scoppiati ad Atene: decine di migliaia di persone hanno affrontato gli idranti e i lacrimogeni della polizia per protestare contro l’accordo con la vicina Macedonia. I manifestanti chiedono che Atene non accetti che la Macedonia possa anche ufficialmente chiamarsi Macedonia del Nord. Finora era ufficialmente chiamata con l’acronimo Fyrom (Former Yugoslavian Republic of Macedonia). Solo la settimana scorsa il governo Tsipras ha accettato di riconoscerla come Macedonia, con l’aggiunta del “Nord” per distinguerla dalla Macedonia greca. Tanta violenza nelle manifestazioni non si comprende, né si comprende un braccio di ferro politico che dura da 28 anni (dal 1991, da quando la Macedonia ha dichiarato l’indipendenza dalla Jugoslavia) solo per riconoscere un nome. Memori delle guerre balcaniche, i greci temono che “Macedonia” sia un nome che cela un’aspirazione egemonica del governo di Skopje su tutta la regione storicamente macedone. Dunque anche sulla Grecia settentrionale. Cose d’altri tempi, appunto, che non sono passate neppure con decenni di appartenenza della Grecia all’Ue.
Questi esempi, appunto, riguardano solo gli ultimi quattro mesi. La questione nord-irlandese, dunque, è una delle tante crisi nazionali tuttora in corso. Conflitti sorti all’interno di Stati multi-nazionali, mai risolti, ma solo temporaneamente anestetizzati dalla comune appartenenza all’Ue. Internazionalisti ed euro-federalisti chiedono una maggior cessione di sovranità a un governo centrale, sovranazionale, a Bruxelles. Ma sanno quello che stanno chiedendo? L’esperienza dell’Urss e della stessa Jugoslavia insegna che anche sotto un regime totalitario comunista, forte della sua ideologia internazionalista, i conflitti nazionali sono sopravvissuti e sono riesplosi, al primo accenno di crisi del regime, nel Nagorno-Karabakh, in Slovenia, Croazia, Moldova, Ossezia, Abkhazia, Bosnia, Kosovo, Crimea, Donbass…