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JIHAD

Iraq, per non dimenticare i profughi cristiani

La battaglia di Mosul, dopo le sue prime fasi, ora non fa più notizia. E provoca rappresaglie, contro quella, sanguinosissima, contro gli sciiti di Baghdad. Il rischio è anche quello di dimenticarsi completamente della sorte dei profughi cristiani, costretti dall'Isis a lasciare le loro case nel 2014.

Esteri 28_11_2016
Mons. Raphael Sako

Passano i giorni e la campagna per la liberazione di Mosul ha già smesso di fare notizia in Occidente. Come era facile prevedere - dopo la prima avanzata rapida dell'esercito iracheno e delle forze curde nei villaggi della Piana di Ninive e dopo che le milizie sciite hanno sbarrato a est ai jihadisti la via di fuga verso la Siria - il fronte della variegata battaglia contro l'Isis in Iraq si è fermato nei primi quartieri più esterni della grande città. Qui gli uomini dl Califfato hanno scavato tunnel e trappole con l'obiettivo di resistere per mesi e sperare che, ancora una volta, siano soprattutto le divisioni delle diverse forze in campo sul "dopo" a offrire loro una boccata d'ossigeno.

Ed è in questo quadro che si inserisce anche la nuova carneficina dell'attentato di qualche giorno fa contro i pellegrini sciiti colpiti a Hilla nonostante le imponenti misure di sicurezza dispiegate dal governo di al Abadi per la festività dell'Arbaeen: un centinaio i morti in quest'orrore divenuto ormai drammatica quotidianità in Iraq. «Gesti estremi» che mirano a «creare odio, divisioni, a frantumare una nazione e il suo tessuto sociale», li ha definiti il patriarca caldo Raphael Sako richiamando ancora una volta «il bisogno di riconciliazione, di incontro fra cristiani e musulmani, fra sunniti e sciiti».

Non bastano, dunque, le immagini dei villaggi liberati per decretare che l'emergenza sia finita. Anzi, in qualche modo quello che si è aperto con l'inizio dell'assalto a Mosul il 17 ottobre è il tempo più difficile per l'Iraq. E proprio per questo AsiaNews in questi giorni ha fatto ripartire la sua campagna «Adotta un cristiano di Mosul», lanciata nell'estate 2014 sull'onda delle notizie drammatiche sui cristiani in fuga da Mosul e dalla Piana di Ninive. C'è infatti un rischio oggi molto concreto: quello di dimenticarsi di questi esuli; di pensare che con le liturgie ritrovate nelle chiese che l'Isis ha lasciato in macerie dopo ogni genere di oltraggio, il cerchio sia finalmente chiuso. Ma non è così: a tornare per ora, purtroppo, sono il più delle volte sono i religiosi e qualche altra persona in avanscoperta. Perché nel loro disegno diabolico i fanatici del Califfato hanno distrutto tutto prima di ritirarsi dalla Piana di Ninive. E come si fa a tornare là dove non ci sono più le case? Come tornare a vivere in un'area disseminata di mine? E con quali garanzie oggi sul fatto che nell'Iraq del futuro ci sia ancora spazio per le minoranze? 

Per di più da Mosul - divenuta campo di battaglia - continuano a scappare nuovi profughi. Oggi si parla molto di loro, delle angherie sempre più dure subite nelle ultime settimane, del rischio che alcuni jihadisti possano camuffarsi e infiltrarsi per fuggire, dei drammi che tutta questa gente è stata costretta a vivere negli anni trascorsi sotto il tallone dell'Isis. Ma oggi c'è però anche il rischio di dimenticarsi di tutti gli altri; compresi i cristiani che già due anni non ebbero alternativa all'esodo. Chi continuerà a prendersi cura di loro? 

«Nella nostra zona l’80% degli aiuti è a carico della Chiesa. Il governo fa poco o nulla, le Nazioni Unite e le organizzazioni umanitarie si occupano solo delle persone ospitate nei campi profughi», ha raccontato ad AsiaNews padre Samir Youssef, parroco di Amadiya nel Kurdistan iracheno dove si prende cura di 3500 famiglie esuli cristiane, ma anche musulmane e yazide. Famiglie che continuano ad aver bisogno di tutto, perché dopo oltre due anni vissuti così anche una semplice coperta ormai si è fatta logora. Ma ciò che non si consuma è la fede di queste comunità: proprio in questi giorni ad Ankawa, il sobborgo cristiano di Erbil, il patriarca Sako ha presieduto l'ordinazione di due nuovi sacerdoti. Uno di loro, padre Rayan Nabil Ablahad Bacus, 30 anni, è originario proprio di Mosul e andrà a vivere il suo ministero nella piccola comunità rimasta a Baghdad. Segni di una comunità cristiana che nonostante tutte le prove di questi anni e un futuro pieno di punti di domanda non vuole soccombere. Ma ha bisogno di essere sostenuta.

«Stiamo iniziando i preparativi per le feste con incontri di preghiera, celebrazioni, seminari - racconta ancora padre Samir nella lettera inviata ad AsiaNews -. Ai cristiani di Oriente e Occidente, ma soprattutto a quanti stanno in Europa e negli Stati Uniti, dico di non dimenticarvi di noi. Come ha detto papa Francesco, la misericordia non deve finire ma deve continuare a vivere nel nostro amore verso l’altro. Nessuno può chiudere la propria porta della misericordia».