Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
San Pascasio Radberto a cura di Ermes Dovico

GUERRA

Iraq, al-Maliki "deve" cadere

Anche gli Stati Uniti abbandonano al suo destino il premier al Maliki, ritenuto responsabile dell'attuale spaccatura dell'Iraq. E pensare che solo un mese fa l'amministrazione Obama si felicitava con il premier per la sua rielezione.

Esteri 23_06_2014
Nouri al-Maliki

Washington sempre più ambigua con l’Iraq. La Casa Bianca invia 300 consiglieri militari delle forze speciali in Iraq in appoggio alle truppe governative ma ha respinto per ora la richiesta irachena di raid contro i jihadisti dello Stato Islamico di Iraq e Sham (ISIS) che marciano sulla capitale. Barack Obama non esclude in futuro interventi aerei mirati per condurre i quali potrebbero essere utili le unità di Berretti Verdi, Ranger e Navy Seals in arrivo in Iraq in queste ore ma per il momento il compito di questi militari sarà di consigliare i comandi iracheni senza intervenire nei combattimenti.

Secondo fonti dell’Amministrazione i consiglieri verranno divisi in gruppi di una decina di uomini e saranno assegnati ai comandi di esercito e polizia iracheni intorno a Baghdad e nel nord dell'Iraq. Questi team da un lato agiranno integrati ai più alti livelli delle forze di sicurezza irachene e dall’altro potranno fornire a Washington aggiornamenti in tempo reale circa lo sviluppo della situazione bellica e le reali condizioni del traballante apparato di sicurezza iracheno.

Il modesto supporto militare fornito al governo iracheno sembra quindi confermare la volontà di Washington di far cadere il governo di Nouri al-Maliki, non da oggi responsabile della frantumazione sociale dell’Iraq governando solo per gli sciiti e a discapito di sunniti e curdi.

Obama sembra convinto che il premier sciita di Baghdad sia il primo responsabile dei successi militari dell’ISIS appoggiato dalle tribù sunnite in molte aree, ma non è possibile che il disastro compiuto da al-Maliki negli ultimi tre anni venga percepito solo ora a Washington. È il caso di ricordare che esattamente un mese or sono la Casa Bianca si congratulò con al-Maliki per la vittoria alle elezioni del 30 aprile che gli consentiva il terzo mandato consecutivo anche se in Parlamento non disponeva più della maggioranza assoluta.

Oggi, con l’esercito iracheno in rotta e l’ISIS alle porte di Baghdad gli statunitensi chiedono però ad al-Maliki di farsi da parte per consentire la nascita di un governo di unità nazionale. Le pressioni americane in tal senso sarebbero state utili un anno or sono per scongiurare quanto accaduto dal gennaio scorso quando l’ISIS dalla Siria piombò con i suoi miliziani sulla provincia di al-Anbar.

Oggi però le richieste di Washington non hanno senso. Inutile pensare a un governo che includa sunniti e curdi quando a Baghdad si tornano a erigere muri tra i quartieri. Piuttosto la pretesa di Obama dimostra ancora una volta la disinvoltura con cui il presidente abbandona gli alleati dell’America nel momento del bisogno, come fece con il tunisino Ben Alì e con l’egiziano Hosni Mubarak quando scoppiarono le cosiddette “primavere arabe”.

"Un chiaro successore di al-Maliki, che dia vita a un governo legittimo, sarebbe molto salutare" ha fatto sapere il Segretario di Stato John Kerry senza spiegare perché il premier iracheno non sia legittimo visto che è appena stato riconfermato dal voto.

Inspiegabile anche la dichiarazione del portavoce della Casa Bianca Jay Carney, per il quale “il popolo iracheno dovrà decidere la composizione di un nuovo governo e chi deve essere il primo ministro". Il popolo iracheno? Carney si è forse scordato delle recenti elezioni o ne paventa di nuove in un contesto di guerra civile?

La senatrice democratica californiana Dianne Feinstein, presidente della Commissione di Intelligence ha detto che "il governo Maliki deve andarsene se vogliamo una qualunque riconciliazione in Iraq" ma ovviamente non ha illustrato una strategia per “dialogare” con l’ISIS né ha spiegato perché i jihadisti dovrebbero negoziare ora che stanno vincendo.

Dietro tanta arroganza americana non sembrano esserci volontà egemoniche paventate invece dall’Iran anche perché nessuno ha le idee chiare su chi mettere al posto di al-Maliki. Tra i nomi che circolano in queste ore vi sono gli sciiti Abdel Abdul Mahdi, Ahmed Chalabi (già considerato vicino alla CIA dopo la caduta di Saddam Hussein), dell'ex premier Iyad Allawi e del cugino dell'imam Moqtada al-Sadr, Jaafar al-Sadr. In crescita le quotazioni di Tariq Najm, consigliere di al Maliki e membro del suo stesso partito (Dawa), considerato molto vicino all'Iran.

Per un cambio di governo occorre però fare in fretta. Impossibile non notare che la posizione di Obama è la stessa dei sauditi e delle monarchie del Golfo, sponsor dei miliziani sunniti e dell’ISIS. Anche loro vogliono che lo sciita al-Maliki se ne vada come chiede pure la Francia, ormai divenuta vassallo di Riad che ripaga la fedeltà di Parigi comprando miliardi di dollari di armi da fornire non solo alle sue forze armate ma anche a quelle libanesi ed egiziane.

A volersi liberare di Maliki sono anche alcuni esponenti sciiti come Ali al-Sistani, massima autorità religiosa sciita irachena, che ha chiesto la formazione di un nuovo governo in grado di unire gli iracheni contro la minaccia dei miliziani sunniti.

In ogni caso Maliki non sembra voler cedere, anche perché godrebbe ancora del supporto del governo iraniano, della fedeltà dei vertici militari e di polizia (da lui nominati in questi anni) e delle milizie sciite che sta arruolando grazie ai  proventi  dell’export petrolifero. Giovedì Maliki ha promesso una paga da 750mila dinari (circa 480 euro) al mese ai volontari che imbracceranno le armi nelle zone in cui imperversano i jihadisti più un bonus da 125mila dinari (63 euro) da spendere in generi alimentari. Cifre forse sufficienti a garantirsi un buon numero di pretoriani pronti alla battaglia di Baghdad.