Iran nucleare, accordo storico ma rischioso
Per 8 anni le grandi potenze e l'Iran hanno negoziato sul programma nucleare segreto di Teheran. Alla fine, solo ieri, all'alba, sono riusciti a raggiungere un accordo temporaneo di sei mesi. Saggezza o imprudenza?
«Oggi il mondo è più pericoloso» afferma il premier israeliano Benjamin Netanyahu. «Ora siamo tutti più sicuri» dichiara il presidente statunitense Barack Obama. Il bello è che entrambi stanno commentando lo stesso evento: l’accordo raggiunto, a Ginevra, fra il governo di Teheran e il gruppo di contatto “P 5+1” sul programma nucleare iraniano.
Si tratta, in ogni caso, di una svolta storica nel negoziato e questo spiega reazioni così viscerali e opposte nello schieramento occidentale. L’Iran venne scoperto nel 2002 con “le mani nella marmellata” nucleare, quando dissidenti all’estero segnalarono la costruzione segreta di due siti nucleari, uno per l’arricchimento dell’uranio e l’altro per la produzione di plutonio, entrambi materiali utili per l’assemblaggio di armi nucleari. Nel 2005 la crisi divenne più acuta, quando il radicale Mahmoud Ahmadinejad, esponente dell’ala dura del regime di Teheran, vinse le elezioni e iniziò a lanciare proclami incendiari contro Israele.
Mentre Usa, Cina e Russia si tenevano ancora fuori dalla crisi, l’Unione Europea mise in piedi un gruppo di contatto che iniziò a negoziare con Teheran. Si chiamava “EU-3” e includeva le due potenze europee rappresentate permanentemente al Consiglio di Sicurezza dell’Onu (Francia e Gran Bretagna) e la Germania, primo partner commerciale dell’Iran in Europa. L’EU-3 avrebbe accolto, l’anno dopo, anche Usa, Russia e Cina. Assieme formarono il gruppo “P 5+1”, una fredda formula matematica che mal celava un’assenza di scopi e valori comuni. Le posizioni al suo interno, infatti, erano tre: Francia (allora c’era Chirac) e Germania desideravano negoziare e ottenere una soluzione diplomatica al più presto, la Gran Bretagna e gli Usa (Blair e Bush) mantenevano una posizione di pressione/prevenzione con lo scopo principale di impedire all’Iran di dotarsi di armi nucleari e infine la Russia e la Cina, alleate dell’Iran e sue principali fornitrici di tecnologia nucleare e missilistica, pronta a porre il veto su ogni condizione dura.
Sarebbe impossibile riassumere otto anni di negoziati. Va detto, però, che tutti gli incontri fra Iran e P 5+1 si sono arenati su un unico punto: la rinuncia, da parte di Teheran, non di tutto il programma atomico, bensì solo di quella parte di programma che consiste nel ciclo di arricchimento dell’uranio.
Come mai questo processo industriale era considerato così importante? Perché è l’unico realmente legato alla possibile costruzione di armi nucleari. L’Iran ha sempre dichiarato che intende portare a termine il suo programma atomico solo per scopi civili. Tuttavia, per scopi civili c’è già la centrale di Bushehr (la cui costruzione è più lunga della “fabbrica del Duomo”) alimentata dall’uranio fornito dalla Russia e ritirato dalla stessa dopo il suo uso. Già il fatto che l’Iran estraesse e arricchisse l’uranio in proprio, nel 2002-2003 aveva destato fortissimi sospetti: perché era proprio necessario un surplus di carburante per la centrale di Bushehr? L’arricchimento necessario alla produzione di combustibile nucleare è al 3%, massimo 5%. Il ciclo industriale iraniano produce uranio arricchito al 20%, troppo raffinato per far da combustibile. Gli iraniani si difendono affermando che uranio arricchito al 20% non è sufficientemente raffinato per far da materiale fissile (quello che innesca la reazione nucleare) in una bomba atomica.
Ma anche qui c’è il trucco: arricchire uranio fino al 20% richiede una tecnologia sofisticata e un ciclo produttivo complesso. Una volta raggiunta la soglia del 20%, invece, l’uranio può essere portato al 90% in men che non si dica. In pratica, in questi anni, gli iraniani non hanno prodotto direttamente bombe atomiche, ma accumulato materiale “pronto a” essere convertito in armi nucleari. È soprattutto questa la causa del terrore sacro che il programma iraniano ispira negli israeliani - primo e quasi unico bersaglio di un’eventuale atomica degli ayatollah -, degli Stati Uniti, che vedrebbero sfidata la propria posizione nel Golfo Persico da una nuova potenza nucleare ostile, e dall’Arabia Saudita, che perderebbe di colpo l’egemonia nella regione. Ed è questa la causa delle sanzioni: siccome l'Iran non ha risposto alle richieste della comunità internazionale, gli Usa e l'Ue hanno applicato misure restrittive economiche che si son fatte particolarmente dure e dannose dopo il 2011.
Perché, per otto anni, l’Iran ha risposto “no” alla richiesta delle grandi potenze e ieri, alle 3 del mattino, ha risposto improvvisamente “sì”? Perché il presidente non è più Mahmoud Ahmadinejad, ma il moderato Hassan Rouhani? Non tanto, anche perché chi tiene le chiavi del programma nucleare è l’ayatollah Alì Khamenei, guida suprema dell’Iran. Ed è stato solo l’assenso di quest’ultimo, a sbloccare la situazione: una serie di trattative segrete fra emissari statunitensi e portavoce di Khamenei, avvenuti nelle settimane scorse nell’Oman, hanno permesso di raggiungere l’accordo. Khamenei era guida suprema anche ai tempi di Ahmadinejad, nei 7 anni di trattative fallite.
Perché ha cambiato idea? Molto semplice: è cambiata la domanda. I P 5+1 hanno chiesto una cosa molto meno vincolante: sospendere per 6 mesi il processo di arricchimento dell’uranio oltre il 5%, consegnare tutto quello arricchito al 20% a un paese terzo, ottenendo in cambio una temporanea sospensione di prova (sempre di 6 mesi) delle sanzioni economiche. Gli interlocutori statunitensi, in particolar modo, hanno voluto dare maggior fiducia al nuovo presidente Rouhani. E soprattutto, se è vero che le sanzioni occidentali del 2011, 2012 e 2013 (contro il sistema finanziario e l’industria petrolifera dell’Iran) hanno piegato l’economia di Teheran, è anche vero che i partner europei non ne potevano più di perdere un mercato promettente come quello iraniano. Agli interessi economici europei si è aggiunto l’interesse politico di Barack Obama, che vuole un successo diplomatico eclatante subito dopo aver varato la sua riforma della sanità (che è già costata uno “shutdown”) con risultati a dir poco imbarazzanti.
Alla fine, si è giunti a un risultato improvviso, dovuto a un’accelerazione inaspettata delle trattative. Ma è una scelta saggia? Oggi siamo realmente “più sicuri” come dice Obama? Con la sospensione delle sanzioni, l’Iran può prendere fiato per 6 mesi. E questo lasso di tempo basta e avanza, secondo le stime del think tank Isis, a costruire più di un ordigno nucleare, stando alla tecnologia che l’Iran ha già raggiunto. Anche se non lo dovesse fare, avrebbe comunque tempo di riprendere fiato, sistemare i conti, riprendere contatti commerciali e prepararsi ad una ripresa del programma nucleare e a un prossimo confronto duro, fra sei mesi, da una posizione più forte.
Inoltre, stando ai termini dell’accordo, non è affatto detto che l’Iran consegni tutto l’uranio arricchito finora prodotto. Sarebbe quasi impossibile verificarlo. E siamo sicuri che gli impianti finora individuati e registrati dall’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (Aiea) siano proprio tutti? Arak e Natanz, come abbiamo visto, sono stati scoperti solo grazie a una soffiata di dissidenti. Anche l’impianto di Fordow, scavato dentro a una montagna, è stato scoperto dall’intelligence solo nel 2009, quando ormai era già quasi completo. Ce ne sono altri che non sono stati dichiarati e che, magari, stanno già producendo tonnellate di uranio arricchito? Non si sa e questo accordo non prevede sufficienti garanzie per poterlo sapere. Non c’è che sperare nella buona volontà degli iraniani, che finora hanno preso tempo con i negoziati per far passi da gigante nel loro programma nucleare segreto. E non c’è che contare sul buon senso di Israele e Arabia Saudita (per la prima volta dalla stessa parte della barricata) affinché non lancino una loro guerra preventiva contro quella che vedono come la loro più grande minaccia esistenziale.