Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Cristo Re a cura di Ermes Dovico
LA STORIA

«Io, vittima di usura, lasciato solo dalle istituzioni»

Gli usurai, il pizzo e infine la chiusura dell’azienda nel 2003, seguita da un processo con la condanna dei suoi estorsori. «Ma le istituzioni mi hanno abbandonato e nemmeno le associazioni antiracket mi aiutano». Bennardo Raimondi, artigiano di 58 anni e maestro del presepe, racconta alla Nuova BQ la sua storia.

Attualità 17_02_2020

«Si parla tanto di denunciare, ma se poi capita di essere abbandonati dallo Stato, com’è successo a me, altre vittime di estorsione finiranno per non denunciare. Questo non è giusto». Bennardo Mario Raimondi, artigiano palermitano di 58 anni, che da 44 lavora l’argilla, parla alla Nuova Bussola con la consapevolezza di chi ne ha passate tante. Proprietario di una piccola azienda di ceramiche fino al 2003, maestro del presepe, a causa dell’usura e del racket viene costretto a chiudere tutto e a licenziare i suoi otto dipendenti. Nello stesso periodo, per liberarsi dalle minacce degli estorsori e pagare dei debiti con le banche, vende la casa e finisce in affitto, iniziando a vivere di espedienti.

Intorno al 2006 si decide a denunciare, e sette anni più tardi arriva la fine del relativo processo, che si conclude con la condanna di due malviventi. Nel mezzo tanta angoscia, persistenti intimidazioni, la disperazione che l’8 marzo 2013 - a processo da poco concluso e in una situazione di estremo disagio economico - lo spinge a tentare il suicidio. Solo l’intervento dei carabinieri, allertati dalla moglie, lo ferma dal proposito di gettarsi con l’auto da un ponte. «I carabinieri hanno bloccato la macchina e poi mi hanno riportato a casa. Si sono comportati come fratelli», ci spiega lui.

Cinque anni fa lo Stato, in base alle norme in favore delle vittime dell’usura e al netto dei pregressi debiti con l’erario, gli ha liquidato circa 20.000 euro, a fronte di un danno personale che Bennardo calcola in 300.000 euro. Quella cifra gli ha comunque permesso un minimo di ripartire, ricomprando una macchina («quella che avevo prima mi era stata rubata»), un forno per ceramiche e altre attrezzature che dopo la chiusura dell’azienda era stato costretto a vendere e che oggi tiene in un piccolo magazzino dove, mancandogli l’acqua corrente, può fare solo la parte finale del suo lavoro. Un altro modesto aiuto gli è venuto da una medaglia al valore civile, ma la continuità delle entrate di un tempo rimane un miraggio.

Bennardo non riceve più intimidazioni da qualche anno, ma continua a vivere di aiuti estemporanei. E se non fosse per la pensione di suo padre, 93 anni, non ce la farebbe. Nella casa attuale - presa in affitto nel 2013, dopo uno sfratto - vive con il genitore, la moglie, una cognata e un figlio diciottenne, che fino a quattro anni fa aveva avuto gravi problemi di salute. Lo stesso Bennardo ha subìto tre infarti, ma non ha perso la voglia di lavorare. Anzi. «Ogni tanto vengo aiutato con la spesa dal Banco Alimentare, a volte la Caritas mi paga qualche bolletta e degli amici cercano di sostenermi come possono, ma a me quello che interessa è poter vivere del mio lavoro. Anche solo riuscire a vendere le statuette e i presepi che ho già fatto mi consentirebbe di respirare».

La storia di questo artigiano, abbastanza conosciuta in Sicilia e raccontata da più giornali locali, nel 2013 è arrivata perfino a conoscenza di papa Francesco (Bennardo gli aveva scritto una lettera). Bergoglio gli ha prima fatto pervenire attraverso l’Elemosineria Apostolica un contributo di 1.000 euro, incassato dopo qualche tragicomica peripezia, e poi gli ha telefonato personalmente. «Mi disse: “Hai le mani d’oro, sfrutta quello che Dio ti ha donato”». Nel frattempo, Bennardo aveva donato a Francesco uno dei suoi presepi. Che lui cerca di vendere o partecipando a fiere e sagre fuori Palermo, che «però comportano spese non indifferenti», o piazzandosi sul sagrato delle chiese. «Non tutti i parroci mi hanno consentito di farlo, ma in generale la Chiesa mi aiuta, anche se le parrocchie oggi si trovano in difficoltà perché i bisognosi sono tanti. Uno che mi ha aiutato molto è monsignor Pennisi», prosegue Bennardo, che tra l’altro è terziario francescano.

Ciò che Bennardo oggi lamenta è «l’indifferenza delle istituzioni, in particolare della Regione Sicilia e del Comune di Palermo. Né Cammarata né Orlando, nonostante le mie richieste, mi hanno mai ricevuto. A parte Solidaria, che 3-4 anni fa mi ha commissionato un lavoro, nemmeno le associazioni antiracket - a Palermo ne conosco sette - mi hanno aiutato». Di qui la considerazione: «Questo è un problema di cui mi hanno parlato anche altre vittime di estorsione. L’antimafia è buona ma si deve vedere come si fa, perché è bello commemorare le vittime di mafia, è bello intitolare loro le strade ma è pure bello aiutare le vittime che oggi sono vive». Un aiuto concreto gli viene invece dal fratello del giudice Paolo Borsellino, Salvatore, che «mi vuole bene come un figlio. Ogni anno, con il suo movimento delle Agende Rosse, mi invita a fare una testimonianza e mi paga il suolo pubblico in via D’Amelio. E così, ogni 19 luglio, riesco a vendere un po’ di cose».

Un amico gli ha creato un sito molto rudimentale e Bennardo ha cercato di vendere online, ma con scarsi risultati, vista anche la poca confidenza con il computer. Le statuette con gli antichi mestieri - dal pescivendolo al venditore di fichidindia - sono tra le sue creazioni principali. Accanto, appunto, alle statuette del presepe. «Pensi che ne ho uno completo fatto 28 anni fa: san Giuseppe è alto 77 centimetri, la Madonna è bellissima».

L’artigiano ha anche cercato più volte di ottenere un bene confiscato alla mafia, ma la legge prevede che tali beni si possano assegnare solo a comunità e associazioni, e lui non ha i mezzi per crearne una. Il suo sogno sarebbe quello di aprire una scuola di ceramica, sia per mantenersi sia per trasmettere un mestiere che ama. «La nostra è una società malata e non solo perché c’è la crisi economica, ma perché sta perdendo i valori e tra questi c’è anche il non saper più vivere le cose antiche. Il mio è un mestiere antico, come il calzolaio, che ormai è quasi scomparso e che tuttavia fa parte della nostra cultura».