Inutile café della morte: esclude il senso della vita
Ascolta la versione audio dell'articolo
Approda anche a Torino l’esperienza del Death Café, organizzata dall’Ordine degli psicologi «per riflettere sul ciclo della vita e superare il tabù della morte». Ma non si può parlare del senso della morte, senza parlare del senso della vita. Solo chi vive, infatti, può morire.
Approda anche a Torino l’esperienza del Death Café, organizzata dall’Ordine degli psicologi del Capoluogo, senza scopo di lucro, «per riflettere sul ciclo della vita e superare il tabù della morte» (così La Stampa). Molto si potrebbe già dire sul nome dato a questa iniziativa, che avrebbe potuto essere presentata come “Caffè del significato”, “Caffè del senso”, “Caffè del fine” o “Caffè della fine”, mentre già il nome “Death Café”, “Caffè della Morte” indica una precisa scelta culturale, che si incastona in quell’orizzonte nichilista, che, in maniera del tutto arbitraria, sceglie di escludere dalla propria riflessione ogni prospettiva teleologica e trascendente.
Ma, sebbene il nome non ci piaccia, dobbiamo riconoscere la positività ed il coraggio almeno di mettere a tema la morte, grande esiliata di una cultura narcisistica ed edonistica, talmente spaventata da questo argomento, da fuggirlo sistematicamente, censurandolo in ogni modo ed ostinandosi a distrarsene, come se fosse qualcosa che riguarda inesorabilmente “gli altri”.
È la drammatica menzogna di Epicuro, che invitava a non temere la morte, perché, quando noi ci siamo, lei non c’è e, quando c’è lei, noi non ci siamo più; quindi non la incontreremo mai. Menzogna drammatica esistenzialmente, poiché ogni giorno incontriamo la morte di chi amiamo e la morte intorno a noi e, soprattutto, perché, per quanto ci si possa sforzare, in tutti i modi immaginabili nell’opulenta società occidentale, di rimuovere il tema, esso si ripresenta ostinatamente, perfino in quel delirio dell’umana volontà, che pretende di decidere autonomamente come e quando morire, non avendo tuttavia mai deciso di vivere.
Probabilmente, l’esperienza collettiva della morte, fatta con i mesi della pandemia, e, non da ultimo, l’irrompere della guerra ai confini dell’Europa, hanno fatto emergere il profondo disagio dell’uomo contemporaneo, che ha rinunciato all’essere, al proprio orizzonte metafisico, ripiegandosi sulla insufficiente soluzione di un pensiero debole, apparentemente conforme alla moderna democrazia, modellabile sui gusti cangianti delle maggioranze, ma del tutto insufficiente ad affrontare, in modo adeguato ed efficace, l’unico tema che sta davvero a cuore ad ogni uomo: il senso della vita.
Perché è questo veramente il punto cruciale: non si può parlare del senso della morte, senza parlare del senso della vita, poiché essa non è separata, né separabile dalla vita! Solo chi vive, infatti, può morire! E solo l’uomo, differentemente da ogni altra creatura, si interroga sul senso della morte, perché è alla continua ricerca del senso della vita.
Sarebbe molto più coraggioso, aprire dei “Life Café”, invece che dei “Death Café”; dei luoghi nei quali parlare anzitutto dell’esperienza umana, recuperando quel livello del vivere e del pensare, che è tipico unicamente dell’essere umano e che si chiama logos, ragione!
È apprezzabile l’idea di recuperare un tema assolutamente censurato, ma è un’idea destinata al fallimento, se non include la disponibilità a mettere a tema il senso dell’esistenza e ad accettare almeno la remota possibilità che la vita possa avere un senso, cioè una direzione, che gli esseri, cioè, possano venire dall’Essere e andare all’Essere. L’unicità dell’uomo, punto di auto-coscienza del cosmo, si documenta esattamente in questa radicale domanda di senso. Egli non ha delle domande; egli è, nella sua essenza, domanda, mostrando in tal modo l’insuperabile struttura di “promessa” che l’essere umano porta con sé.
Se così non fosse, la morte non sarebbe il dramma che è: se l’uomo non fosse promessa – e promessa di vita –, non percepirebbe la morte come qualcosa di estraneo a sé. E, per quanto ci si possa sforzare di ridurre l’estraneità nei confronti della morte ad un mero istinto di sopravvivenza, sarà sempre irriducibile l’atteggiamento dell’uomo, animale razionale, all’atteggiamento di un qualunque altro essere vivente nei confronti di tale esperienza.
Un “Death Café”, scoperchiando il vaso di Pandora della difficoltà di stare di fronte al tema della morte e di razionalizzarla, potrebbe, paradossalmente, creare ancora maggiori frustrazioni, perché acuirebbe radicalmente la domanda senza offrire realmente una risposta. Al bisogno di vita senza fine può rispondere solo Colui che è l’Infinito; al bisogno di essere per la vita non risponde l’“essere per la morte” di heideggeriana memoria, ma l’Essere che è la Vita stessa.
Per il cristiano, questo Essere, che tutti chiamano “Dio”, non è un’idea astratta, lontana, estranea all’esperienza quotidiana, ma ha assunto un volto, è entrato nel tempo e nella storia, in Gesù di Nazareth, Signore e Cristo, il Quale, per primo, ha vinto la morte. Di fronte all’esperienza di un uomo – perché Gesù è integralmente Uomo, oltre che integralmente Dio –, di fronte all’esperienza di un uomo che ha vinto la morte, si spalanca un orizzonte impensabile per il senso del vivere e del morire, così dilatato da includere perfino la dimensione fisica della corporeità, che dice l’integralità della salvezza offerta da Dio, in Gesù Cristo, nello Spirito Santo.
Quelli che la tradizione cattolica chiama “esercizi spirituali”, si chiamavano un tempo “esercizi di buona morte”, indicando, con tale termine – oggettivamente oggi percepito come piuttosto cupo –, la necessità di stare di fronte al senso della vita nel presente, per poter affrontare ogni passo futuro. Non è molto logico, infatti, interrogarsi sul senso del fine vita, se non si ha chiaro il senso di ogni giorno che viviamo, se non abbiamo il rigore, il coraggio e l’umiltà di cercare, ogni giorno, il senso della vita, di guardare chi l’ha trovato e, umilmente, provare a seguirlo.
Allora ben venga qualunque iniziativa che risvegli l’uomo dal suo illusorio e fallace sogno narcisistico e paradossalmente nichilista, ma a condizione che diventi un luogo in cui recuperare quel livello dell’io che chiamiamo “ragione”, quella dignità che chiamiamo “persona” – in senso relazionale – e quel respiro grande che chiamiamo “Essere” e “Trascendenza”. Non avremmo dentro di noi domande di vita, se non venissimo da Colui che è vivo; non ci ribelleremmo alla morte, se fossimo fatti per essa. L’auspicio è che l’iniziale esperienza di un “Death Café” possa diventare non luogo dove sommare le disperazioni, ma dove aprirsi alla speranza, divenendo “Life Café” o, meglio, “Logos Café”.
* Sacerdote, www.logosepersona.it