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MEDITERRANEO

Intervento in Libia, ecco cosa possiamo rischiare

Conclusa la vicenda degli ostaggi italiani in Libia, finita con un bilancio tragico (due uccisi, due liberati), si infittiscono le voci su un prossimo intervento armato italiano. Gli Usa ci chiedono l'impiego di 5000 uomini. Noi potremmo anche metterli in campo, ma possiamo correre molti rischi.

Editoriali 05_03_2016
Militare italiano

Si è conclusa la vicenda degli ostaggi italiani in Libia. Gli operai della Bonatti Gino Pollicardo e Filippo Calcagno sono stati liberati nei pressi di Mellitah, a 60 km da Tripoli. Si ritengono "psicologicamente devastati", come loro stessi affermano dopo mesi di prigionia nelle mani dello Stato Islamico, ma sono vivi e tornano a casa. Non ce l'hanno fatta, invece, gli altri due ostaggi, Salvatore Failla e Fausto Piano, morti nel corso di uno scontro fra gli jihadisti e una milizia rivale. I sequestratori li avrebbero usati come "scudi umani". Sono altre due vite di connazionali distrutte nel caos nordafricano, mentre si infittiscono le voci che parlano di un prossimo intervento.

L’unico aspetto chiaro nella saga infinta del possibile intervento italiano in Libia è che nel pantano che caratterizza la situazione militare nella nostra ex colonia gli “alleati” statunitensi ci vorrebbero coinvolgere “boots on the ground”, schierando cioè quei soldati sul terreno che gli stessi Stati Uniti non intendono invece dispiegare nella guerra all’Isis.

“Ci aspettiamo fino 5 mila militari italiani in Libia”, ha detto al Corriere della Sera l’ambasciatore statunitense a Roma, John R. Phillips, quasi fosse lui il premier o il ministro della Difesa italiano. Che Washington voglia gli alleati europei coinvolti pienamente nella guerra allo Stato Islamico non è un mistero e la dichiarazione di Philips costituisce solo l’ultima di una serie reiterata di pressioni esercitate dagli USA su Roma. Ciò detto cosa farà o è pronta a fare effettivamente l’Italia in Libia è difficile prevederlo considerando le tante variabili e gli aspetti ancora irrisolti. Il Comando Operativo di Vertice interforze di Centocelle (Roma) ha messo a punto piani militari per rispondere a diverse opzioni di intervento ma i vertici politici non sembrano avere ancora preso alcuna decisione.

L’impiego di forze speciali sotto il controllo diretto dei servizi di sicurezza segreti e di Palazzo Chigi per compiere blitz mantenuti (per quanto possibile) segreti è sempre possibile ma tenuto conto che Renzi non vuole azioni belliche dell’Italia contro lo Stato Islamico si potevano immaginare solo tese a liberare i quattro ostaggi prigionieri (dell’Isis?) a Sabrata. Risolta, pur se in parte in modo tragico, quella vicenda è improbabile che vi saranno “azioni coperte” italiane contro lo Stato Islamico come quelle organizzate invece con ogni probabilità da britannici, statunitensi e francesi che hanno già i propri uomini in azione.

Sul mare già oggi è operativa una forza navale italiana (Operazione Mare Sicuro) con una mezza dozzina di navi, fucilieri di Marina e forze speciali (circa mille effettivi) per proteggere le piattaforme off-shore ed eventualmente del terminal del gasdotto Greenstream di Melitha, a ovest di Tripoli. Le prospettive per un intervento militare italiano teso a stabilizzare la Libia sono legate alla nascita del governo di unità nazionale di Fayez al-Sarraj, che dovrebbe poi insediarsi a Tripoli e chiedere un’azione militare internazionale di supporto. Questo in teoria perché la fiducia a al-Sarraj dal parlamento di Tobruk non arriva e il governo islamista di Tripoli non vuole il nuovo esecutivo nella capitale dove non fa atterrare neppure l’aereo dell’inviato dell’Onu, Martin Kobler.

Se il nuovo governo dovesse nascere, insediarsi a Tripoli, risultare credibile per la gran parte delle fazioni libiche e chiedere aiuto alla comunità internazionale allora Roma potrebbe assumere il comando di una forza composta anche da contingenti di altri Paesi per condurre una missione di stabilizzazione con l’avvallo dell’ONU ma non certo di guerra allo Stato Islamico. Da tempo si parla di affidare al generale Paolo Serra (veterano dell’Afghanistan e capo della missione dell’ONU in Libano attualmente consigliere per la sicurezza dell’inviato delle Nazioni Unite in Libia) la guida della Lybian International Assistance Mission (LIAM), strutturata su più componenti con l’obiettivo di proteggere pozzi e terminal di gas e petrolio oltre alle sedi governative e ad assicurare istruttori e consiglieri militari alle forze libiche che dovranno combattere lo Stato Islamico.

L’Italia è in grado di trasferire in Libia un quartier generale a livello di divisione che guidi le forze terrestri multinazionali che vedrebbero probabilmente l’impiego di reparti italiani di paracadutisti, fucilieri di Marina con elicotteri e mezzi blindati. La componente aerea potrebbe essere basata a Trapani o in un aeroporto libico sicuro mettendo in campo aerei cargo C-130, droni Predator e cacciabombardieri AMX  (4 sono già stati a Trapani) da impiegare per compiti di ricognizione sui territori controllati dallo Stato Islamico. La componente navale verrebbe probabilmente costituita inglobando la missione italiana Mare Sicuro e quella europea Eunavfor Med (a guida italiana) che doveva contrastare i trafficanti di esseri umani ma finora non è stata autorizzata a operare nelle acque libiche e si limita a raccogliere gli immigrati clandestini e a sbarcarli in Italia.

L’Italia potrebbe quindi mettere in campo da 3 a 5 mila uomini (come ci chiedono gli USA) che dovrebbero inserirsi in un contingente formato forse anche da truppe francesi, tedesche e britanniche. Berlino è pronta ad addestrare le reclute libiche inviando istruttori (ma in Tunisia, per ragioni di sicurezza), Londra diceva di voler mettere in campo un migliaio di uomini ma non è chiaro con quali compiti e ha già inviato 20 consiglieri militari ad aiutare le guardie di frontiera tunisine che cercano di bloccare il passaggio dei miliziani dello Stato Islamico.

L’intervento militare italiano resta quindi teorico perché mancano le condizioni di base chieste da Roma per concretizzarlo: l’inesistenza del governo di unità nazionale libico e la determinazione di Renzi a evitare il coinvolgimento in operazioni belliche contro lo Stato Islamico rendono al momento inattuabile l’operazione e frustrano le ambizioni di leadership dell’Italia.

Il rischio è poi che un’eventuale missione di stabilizzazione guidata da Roma abbia un peso tutto sommato marginale e lasci ai nostri alleati/rivali anglo-francesi e americani carta bianca per condurre azioni belliche unilaterali al fianco di milizie locali e contro obiettivi decisi esclusivamente a Londra, Parigi e  Washington, come è accaduto nella guerra del 2011 contro Muammar Gheddafi. Se a questo aggiungiamo che azioni del genere vengono effettuate anche dagli egiziani e dai loro alleati degli Emirati Arabi Uniti appare chiaramente che il futuro della Libia non dipenderà certo dall’impegno italiano.

Avere però molte truppe sul terreno renderà gli italiani il bersaglio ideale (perché il più esposto) a kamikaze e miliziani jihadisti a caccia di “crociati” da uccidere.