CALCIO
Inter e Coppa del mondo, l'impossibile normalità
Alla vigilia di un incontro importantissimo, la Beneamata si conferma un fenomeno di costume. Tre scenari per i tifosi.
Attualità
13_12_2010
L’ultima volta che l’Inter ha giocato una finale di Coppa del Mondo correva l’anno 1965. Praticamente, era la coppa di un altro mondo: c’erano la guerra fredda e l’Unione Sovietica, l’Italia del boom economico e l’esordio degli Oscar Mondadori nelle edicole , la Vespa e la Seicento, Bobby Solo vincitore con “Se piangi se ridi” a Sanremo e la Dc di Amintore Fanfani e Aldo Moro. La luna era una pallida immagine poetica ancora inviolata dai piedi dell’uomo.
Molti degli interisti che questa settimana seguiranno con trepidazione e perfino un po’ di angoscia la loro squadra impegnata ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi, in quel 1965 non erano neppure nati. Milioni di tifosi nerazzurri conoscono la “Grande Inter” di Herrera esattamente come i ragazzi del liceo leggono le gesta degli eroi omerici. Un calcio che incarna un’epica che va oltre la storica, con quella formazione-tipo che assomiglia a una pagina dell’Iliade o dell’Odissea, dove Sarti e Guarneri, Picchi e Mazzola, Jair e Corso si muovono dentro immagini in bianco e nero che raccontano un’epopea lontanissima, e quindi insuperabile.
Immagini vecchie di oltre quarant’anni. Una semplice constatazione che serve a milanisti e juventini per fare un po’ di facile ironia sul carattere preistorico delle vittorie internazionali dei nerazzurri. Ma, banalmente, si tratta anche della conferma che la partecipazione alla Coppa del Mondo per club è davvero un evento più unico che raro.
In quel lontano 1965 il trofeo si chiamava Coppa Intercontinentale, e si giocava in due partite, una fra le mura amiche e l’altra sui campi caldissimi del Sudamerica, accerchiati da un pubblico ostile e da un clima più simile alla corrida che a quello del football europeo. L’Inter vinse per la seconda volta consecutiva la coppa il 15 settembre del 1965, uscendo indenne dal campo degli argentini dell’Indipendiente, dove piovevano biglie di vetro. Adesso la competizione è cambiata completamente, essendosi trasformata prima in una sfida secca in campo neutro, e poi in un minitorneo giocato ai confini dell’impero calcistico, che coinvolge le migliori squadre di ogni continente. Ma un fatto rimane immutato: in palio c’è il titolo di migliore squadra di club al mondo. La competizione in sé è poca cosa, rispetto alla scintillante sfilata di squadroni che offre la Champion’s League. Ma il punto è che per arrivare a giocare la Coppa del Mondo bisogna aver vinto la Coppa dei Campioni. Solo poche squadre hanno il privilegio di parteciparvi, e ancora meno di vincerla.
L’Inter ha aspettato quasi cinquant’anni per giocarsi di nuovo questa Coppa, mentre generazioni di interisti hanno sognato questo momento, immaginando di arrivarci con uno squadrone all’altezza della situazione. Ma con l’Inter non c’è mai nulla di scontato, nulla di normale. E infatti, che cosa ti combina la Beneamata? Si presenta all’appuntamento con la Coppa del Mondo nella condizione peggiore, con un allenatore che sembra avere già le valige pronte, una squadra che ha recuperato in fretta e furia una legione di infortunati, e che sembra la caricatura dell’invincibile armata di Josè Mourinho. Nome che, al solo pronunciarlo, fa venire ai tifosi un magone grosso così.
D’altra parte, l’Inter è un fenomeno di costume che coinvolge decine di milioni di persone, cardiopatici cronici abituati alla sofferenza da anni di digiuno, che improvvisamente si sono ritrovati immersi in un sogno: cinque scudetti consecutivi, una squadre irresistibile, il trionfo in tre competizioni nello stesso anno. Poi, in pochi mesi, tutto è svanito, come in un incantesimo della fiabe.
Ma il tifoso interista è un tipo previdente, che sa fiutare l’aria ed è capace di ridere di sé e della sua squadra. Per cui, alla vigilia della Coppa del Mondo, egli ha già delineato i possibili scenari che lo attendono, ispirandosi all’epica classica.
Prima ipotesi, la catastrofe stile Cassandra: l’Inter perde mercoledì sera contro i modesti coreani del Seongnam ed è pure condannata a giocare la grottesca finale per il terzo e quarto posto. I giocatori tornano in Italia di notte e di nascosto per evitare la folla inferocita, mentre Benitez resta definitivamente negli Emirati Arabi.
Seconda ipotesi, l’illusione dei Troiani di fronte al cavallo lasciato in dono dagli Achei: l’Inter batte senza fatica i coreani e sabato si presenta baldanzosa in finale, dove però soccombe contro i Brasiliani dell’Internacional di Porto Alegre (sempre che a sorpresa non si facciano eliminare dai congolesi). L’interista medio scompare dai luoghi di lavoro per una settimana, inseguito dagli sfottò dei cugini rossoneri.
Terza ipotesi, l’apoteosi di Ulisse che scaccia i Proci: dopo 45 anni i nerazzurri alzano la Coppa del Mondo, vinta quando meno te l’aspetti, da una squadra che, come per miracolo, ritrova il gioco e i gol dei tempi d’oro. Caroselli nelle strade, bambini che portano negli occhi le immagini dei loro beniamini che infilzano due o tre volte la porta degli avversari. Accanto a loro, i papà in lacrime ripetono “la” formazione, quella di sempre: Sarti Burgnich Facchetti, Bedin Guarneri Picchi, Jair Mazzola Peirò Suarez Corso.
Molti degli interisti che questa settimana seguiranno con trepidazione e perfino un po’ di angoscia la loro squadra impegnata ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi, in quel 1965 non erano neppure nati. Milioni di tifosi nerazzurri conoscono la “Grande Inter” di Herrera esattamente come i ragazzi del liceo leggono le gesta degli eroi omerici. Un calcio che incarna un’epica che va oltre la storica, con quella formazione-tipo che assomiglia a una pagina dell’Iliade o dell’Odissea, dove Sarti e Guarneri, Picchi e Mazzola, Jair e Corso si muovono dentro immagini in bianco e nero che raccontano un’epopea lontanissima, e quindi insuperabile.
Immagini vecchie di oltre quarant’anni. Una semplice constatazione che serve a milanisti e juventini per fare un po’ di facile ironia sul carattere preistorico delle vittorie internazionali dei nerazzurri. Ma, banalmente, si tratta anche della conferma che la partecipazione alla Coppa del Mondo per club è davvero un evento più unico che raro.
In quel lontano 1965 il trofeo si chiamava Coppa Intercontinentale, e si giocava in due partite, una fra le mura amiche e l’altra sui campi caldissimi del Sudamerica, accerchiati da un pubblico ostile e da un clima più simile alla corrida che a quello del football europeo. L’Inter vinse per la seconda volta consecutiva la coppa il 15 settembre del 1965, uscendo indenne dal campo degli argentini dell’Indipendiente, dove piovevano biglie di vetro. Adesso la competizione è cambiata completamente, essendosi trasformata prima in una sfida secca in campo neutro, e poi in un minitorneo giocato ai confini dell’impero calcistico, che coinvolge le migliori squadre di ogni continente. Ma un fatto rimane immutato: in palio c’è il titolo di migliore squadra di club al mondo. La competizione in sé è poca cosa, rispetto alla scintillante sfilata di squadroni che offre la Champion’s League. Ma il punto è che per arrivare a giocare la Coppa del Mondo bisogna aver vinto la Coppa dei Campioni. Solo poche squadre hanno il privilegio di parteciparvi, e ancora meno di vincerla.
L’Inter ha aspettato quasi cinquant’anni per giocarsi di nuovo questa Coppa, mentre generazioni di interisti hanno sognato questo momento, immaginando di arrivarci con uno squadrone all’altezza della situazione. Ma con l’Inter non c’è mai nulla di scontato, nulla di normale. E infatti, che cosa ti combina la Beneamata? Si presenta all’appuntamento con la Coppa del Mondo nella condizione peggiore, con un allenatore che sembra avere già le valige pronte, una squadra che ha recuperato in fretta e furia una legione di infortunati, e che sembra la caricatura dell’invincibile armata di Josè Mourinho. Nome che, al solo pronunciarlo, fa venire ai tifosi un magone grosso così.
D’altra parte, l’Inter è un fenomeno di costume che coinvolge decine di milioni di persone, cardiopatici cronici abituati alla sofferenza da anni di digiuno, che improvvisamente si sono ritrovati immersi in un sogno: cinque scudetti consecutivi, una squadre irresistibile, il trionfo in tre competizioni nello stesso anno. Poi, in pochi mesi, tutto è svanito, come in un incantesimo della fiabe.
Ma il tifoso interista è un tipo previdente, che sa fiutare l’aria ed è capace di ridere di sé e della sua squadra. Per cui, alla vigilia della Coppa del Mondo, egli ha già delineato i possibili scenari che lo attendono, ispirandosi all’epica classica.
Prima ipotesi, la catastrofe stile Cassandra: l’Inter perde mercoledì sera contro i modesti coreani del Seongnam ed è pure condannata a giocare la grottesca finale per il terzo e quarto posto. I giocatori tornano in Italia di notte e di nascosto per evitare la folla inferocita, mentre Benitez resta definitivamente negli Emirati Arabi.
Seconda ipotesi, l’illusione dei Troiani di fronte al cavallo lasciato in dono dagli Achei: l’Inter batte senza fatica i coreani e sabato si presenta baldanzosa in finale, dove però soccombe contro i Brasiliani dell’Internacional di Porto Alegre (sempre che a sorpresa non si facciano eliminare dai congolesi). L’interista medio scompare dai luoghi di lavoro per una settimana, inseguito dagli sfottò dei cugini rossoneri.
Terza ipotesi, l’apoteosi di Ulisse che scaccia i Proci: dopo 45 anni i nerazzurri alzano la Coppa del Mondo, vinta quando meno te l’aspetti, da una squadra che, come per miracolo, ritrova il gioco e i gol dei tempi d’oro. Caroselli nelle strade, bambini che portano negli occhi le immagini dei loro beniamini che infilzano due o tre volte la porta degli avversari. Accanto a loro, i papà in lacrime ripetono “la” formazione, quella di sempre: Sarti Burgnich Facchetti, Bedin Guarneri Picchi, Jair Mazzola Peirò Suarez Corso.