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POLEMICHE

Informare sì, ma responsabilmente

La politica fatta in base a informazioni scorrette genera solo cappellate micidiali. I casi clamorosi di Uganda
e World Economic Forum.

Attualità 22_03_2012
La stampa

 

La libertà di informazione è senza dubbio un diritto fondamentale. Dovrebbe essere ritenuto altrettanto fondamentale il dovere di informare responsabilmente e quindi di informarsi con tutta la cura e l’attenzione possibili prima di esporre dei fatti e magari su questi formulare analisi, previsioni e piani d’azione. Tanto più essenziale è il dovere di conoscere i fatti per chi ha l’incarico di amministrare e guidare imprese e paesi e per chi ha il compito di consigliare e assistere le persone di potere nelle loro scelte e nelle loro decisioni. Se si tratta di affrontare un problema e risolverlo, niente è peggio di non conoscerne esattamente origini, cause ed entità.

In che mani siamo, ci si domanda con indignata apprensione, scoprendo che dei parlamentari italiani non sanno a quanto ammonta il debito pubblico del nostro Paese o che cosa siano, per esempio, lo spread, il deficit e la "Tobin tax", per non parlare di realtà "remote": che cosa succede in Darfur, di quale Paese è stato presidente Nelson Mandela, che cos’è e dove si trova Guantanamo.
Alcuni casi clamorosi, di rilevanza internazionale, proprio in queste settimane confermano che molte persone dalle quali dipende il destino del mondo, quand’anche siano mosse da buone intenzioni, tuttavia agiscono sulla base di conoscenze parziali, incomplete o errate, frettolosamente raccolte e usate.

La campagna Stop Kony è il caso di cui sta parlando tutto il mondo. La giusta causa di voler fermare la ferocia di Joseph Kony, il capo del Lord’s Resistance Army responsabile di massacri, torture e rapimenti nell'Africa subsahariana, non si associa a buona informazione: alle decine di milioni di persone raggiunte dal messaggio dell’ONG Invisible Children si dice che bisogna salvare i bambini ugandesi mentre da diversi anni le vittime di Kony non sono gli ugandesi, ma gli abitanti di alcune regioni del Sud Sudan, della Repubblica Centrafricana e della Repubblica Democratica del Congo. Inoltre si fa intendere che dell’impunità di Kony sia colpevole l’inerzia e l’indifferenza dell’Occidente, e difatti lo scopo della campagna è indurre all’azione il governo degli Stati Uniti, mentre i responsabili sono i leader di quei Paesi che tollerano Kony venendo meno ai loro doveri nei confronti dei connazionali.

Il secondo caso riguarda addirittura il World Economic Forum, il prestigioso organismo internazionale nato per migliorare lo stato del pianeta impegnando in progetti globali e regionali i maggiori personaggi politici, economici e accademici del mondo, e due rinomate università statunitensi: Harvard e Berkeley. Ogni anno il World Economic Forum pubblica il Rapporto globale sul divario di genere. Tale divario è misurato sulla base di quattro parametri: partecipazione e opportunità economiche, livelli scolastici, salute e sopravvivenza, empowerment in ambito politico. L’8 marzo il rapporto 2011 da poco pubblicato è stato ampiamente commentato dai mass-media. Quelli italiani hanno dato molta evidenza al fatto che l’Italia vi compare al 74° posto su 135 Stati considerati, mentre, compiendo costanti balzi in avanti, numerosi Paesi del sud del mondo occupano posizioni assai più onorevoli.

Chi conosce le realtà di quei Paesi non può fare a meno di domandarsi incredulo come sia possibile che il divario tra condizione maschile e femminile in fatto di accesso all’istruzione, salute, partecipazione politica e lavoro sia di gran lunga minore, ad esempio, in  Lesotho, al 9° posto, Sudafrica, al 14°, Burundi, al 24° (subito dopo l’Australia), Mozambico, al 26°, Uganda, al 29° (seguita dal Lussemburgo), rispetto a quello non solo dell’Italia, ma anche della Francia, al 48° posto, di Israele, al 55°, o dell’Austria, al 34°. Chi invece di quei paesi sa poco o niente, accetta i risultati del rapporto prodotto da tanto autorevole istituto e, se è italiano, fa i conti con la mortificante rivelazione, di fronte al mondo intero, che l’Italia discrimina le donne persino più del Bangladesh, che figura al 69° posto, e della Cina, che è al 61°.

Per dire: la Cina è il Paese degli aborti e degli infanticidi selettivi per eliminare le figlie indesiderate e in Uganda si praticano le mutilazioni genitali femminili.
Le sviste di Ayaan Hirsi Ali, per quanto gravi, al confronto parrebbero poca cosa. A febbraio la rivista Newsweek ha pubblicato un articolo sulla persecuzione dei cristiani da parte degli islamici scritto dalla formidabile scrittrice e studiosa somala che ha sfidato la propria religione, l’islam, scrivendo il testo del cortometraggio Submission, sulla condizione delle donne musulmane, costato la vita al regista Theo van Gogh nel 2004 e a lei una sentenza islamica di morte che la costringere a vivere sotto scorta. A proposito del Sudan, dove per decenni i cristiani del sud sono stati decimati dal governo arabo-islamico, Hirsi Ali definisce la successiva guerra del Darfur il momento culminante della persecuzione delle minoranze religiose iniziata nel Sud cristiano e sostiene che le violenze continuano nonostante la semi-indipendenza accordata al Sud dal presidente Omar al Bashir nel luglio del 2011.

Ma in Darfur la popolazione è islamica: le etnie di origine araba combattono contro quelle di origine africana con il sostegno del  governo che intende completare così il proprio progetto di arabizzazione del Paese. Inoltre, il 9 luglio 2011 il Sud Sudan è diventato il 54° Stato africano, indipendente come avevano deciso i suoi abitanti con un referendum svoltosi nel gennaio del 2011 secondo quanto previsto dagli accordi globali di pace che nel 2006 hanno messo fine alla guerra tra nord e sud.
Nei primi due casi è evidente un’influenza ideologica, antioccidentale, invece del tutto assente in Hirsi Ali. Proprio per questo i suoi errori sono ancora più preoccupanti, indicativi di una informazione inspiegabilmente carente tanto più che Ayaan Hirsi Ali lavora presso l’American Enterprise Institute, l’autorevole think thank nordamericano che a ragione si vanta di svolgere eccellenti studi e ricerche relativi a diversi settori politici di importanza strategica. Nel 2005 Hirsi Ali, per la fama e la fiducia di cui gode internazionalmente, è stata inserita da Time nell’elenco delle 100 persone più influenti del mondo. Se non di lei, di chi ci si deve fidare?