Infezioni prese in ospedale, un fattore decisivo
Nella Babele di questi giorni, molti dimenticano che in Italia ogni anno muoiono 8mila persone per infezioni ospedaliere, il dato più alto in Europa. Restare a casa va bene, ma non servirà a molto se ai sanitari non vengono forniti adeguati strumenti di protezione.
Gentile Direttore,
E’ fuori discussione che ora l’urgenza vera e drammatica sia quella di trovare i letti per curare i pazienti con le gravi complicanze da Covid19. Ma l’emergenza ci sta inondando di troppi maestri in grado di dare consigli e ricette su come comportarsi e risolvere tutti i problemi. In mezzo a informazioni, disinformazioni e ipocrite melasse di pseudo patriottismo può essere utile ricordarci di alcune cose che possono contribuire a rispondere (almeno in parte) alla domanda che tutti si fanno del perché di una situazione tanto grave. E anche quanto una certa leggerezza abbia contribuito a condurci in questa situazione.
Infatti da docente universitario di Microbiologia sono decenni che tento (con successo discutibile) di fare passare alcuni fondamentali concetti e pratiche che faticano ad essere applicate.
Secondo i dati della European Centre for Disease Prevention and Control (Ecdc) del 2019, di cui molti giornali hanno parlato (e ora sembrano non ricordare), in italia muoiono ogni anno circa 8mila persone (22 al giorno) a causa di infezioni ospedaliere. Le infezioni ospedaliere sono considerate la complicanza più frequente e grave nell’ambito dell’assistenza sanitaria e si definiscono così le infezioni insorte durante o in seguito a ricovero ospedale (cioè che al momento dell’ingresso non erano presenti e tanto meno in fase di incubazione). E’ noto che le persone più a rischio sono sempre i pazienti cosiddetti fragili o con patologie multiple.
Prescindendo dal grave problema della antibiotico resistenza (che riguarda un capitolo
a se stante) sappiamo che queste infezioni si trasmettono soprattutto per contatto diretto
tra una persona sana e una infetta soprattutto tramite le mani, le goccioline emesse con la
tosse e starnuti, attraverso veicoli contaminati (per esempio strumenti, cibo, sangue, liquidi di infusione, disinfettanti, ecc) e solo in piccola parte attraverso microrganismi presenti nell’aria e trasmessi a distanza.
Non tutte queste infezioni sono ovviamente prevenibili, ma una corretta prassi igienica delle procedure sanitarie le può ridurre drasticamente. E tra queste quella di cui ora tutti parlano: il lavaggio delle mani e l’utilizzo di mascherine!
Basti pensare che il 5 maggio del 2019 si è celebrata la “Giornata mondiale dell’igiene
delle mani”, alla quale il nostro ministero della Salute, l'Istituto superiore di sanità (Iss) e
l'Agenzia italiana del farmaco (Aifa) hanno dato enfasi per attuare programmi di
prevenzione delle infezioni e promozione dell’igiene delle mani nelle strutture sanitarie.
Purtroppo, infatti, l’Italia sembra avere l’incidenza di infezioni ospedaliere più alta di tutta Europa, con il 30% dei casi fatali che equivale al doppio dei decessi per incidenti stradali.
Queste considerazioni non devono condurre a conclusioni affrettate o ad attribuire colpe indebite.Tuttavia aiutano una presa di coscienza e almeno in parte spiegano questa drammatica diffusione del coronavirus in Italia che qualcuno ha già sottolineato.
Forse non si è attuato immediatamente un piano di tutela del personale medico con adeguati
strumenti di protezione per se e quindi dei pazienti. Forse non si sono identificati subito e
quindi isolati i portatori sani tra il personale ospedaliero e sanitario.
Ora che forse i buoi sono scappati (come si dice popolarmente), è certamente giusto
insistere (senza terrorismo da caccia all’untore) sulla necessità di stare a casa. Occorre tuttavia considerare che questo non servirà a molto se non si forniscono adeguati strumenti di protezione agli operatori e non si pianificano controlli per isolare (tra il personale più esposto) chi diventa una sorgente importante di infezione. Anche la ricerca di anticorpi nei cosiddetti guariti è di grande importanza per stabilire quale sia il grado di immunità e studiare future strategie.
* Docente di Microbiologia, Università di Milano