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ASIA

Indonesia sospesa fra due presidenti e due destini

Il prossimo 22 luglio verrà pubblicato l'esito delle elezioni presidenziali in Indonesia. I cristiani (10% del Paese) sperano che sia confermata la vittoria di Joko "Jokowi" Widodo, il candidato civile contrapposto all'ex generale Subianto.

Esteri 11_07_2014
Jokowi

L’Indonesia, il grande arcipelago disteso su tre fusi orari fra l’Oceano Indiano e l’Oceano Pacifico, costituisce il Paese musulmano più popoloso del mondo ed è ancora sospeso fra due alternative. Il presidente uscente Susilo Bambang Yudhoyono ha terminato il suo secondo mandato e non si può ricandidare. Superstizioso e dotato di una grande immaginazione (dichiara candidamente di credere nella magia e di praticarla pure, nonostante sia un musulmano), l’ex presidente lascia dietro di sé una scia di malcontento, per una scarsa performance economica e diversi scandali di corruzione. È ancora in corso il conteggio dei voti per le elezioni presidenziali che si sono svolte lo scorso 9 luglio. I risultati ufficiali verranno pubblicati solo il prossimo 22 luglio, ma exit poll e conta provvisoria dei voti danno vincente il candidato sfidante e più giovane, Joko “Jokowi” Widodo con il 52,8% dei voti, contro l’ex generale Prabowo Subianto, esponente della vecchia guardia, con il 47,2% dei consensi. Jokowi si dichiara vincitore, Subianto annuncia che darà battaglia, almeno con mezzi legali. Sarà lunga. Si tratta di elezioni molto importanti, sia per il futuro del Paese (che è ancora una giovane democrazia, da appena 16 anni), sia per quello della comunità cristiana, che comunque costituisce quasi il 10% della popolazione.

L’Indonesia è ricordata in Occidente soprattutto per un grande dramma naturale, lo tsunami del 26 dicembre 2004, che qui provocò 130mila morti (più 37mila dispersi) nella regione occidentale di Aceh. Ma è anche sotto i riflettori delle associazioni dei diritti umani soprattutto per l’intolleranza religiosa. Nel 2013 vi sono stati 222 episodi di violenza a sfondo religioso, in crescita rispetto all’anno precedente. Nella maggior parte dei casi si tratta di attacchi condotti da musulmani sunniti (in maggioranza) contro gli sciiti. Ma anche i cristiani sono da annoverare fra le vittime. L’ultimo episodio, balzato agli onori delle cronache è avvenuto a Pugeran, Yogyakarta, dove tre gruppi di radicali islamici hanno attaccato la parrocchia del Sacro Cuore. Al grido di “Allah è grande” hanno fatto irruzione nella chiesa per vandalizzarla, durante la prima funzione del mattino. Gli attacchi sono condotti da gruppi di radicali fuorilegge, ma sono spesso tollerati da polizia ed esercito, in cui l’islam politico è diffuso da decenni. L’ordine islamico è particolarmente consolidato ad Aceh, provincia in cui vige la shariah, in seguito a un accordo di compromesso fra il governo e il locale movimento indipendentista Gam. Aceh è amministrata e regolata secondo i dettami coranici e la legge è fatta rispettare anche da una specifica “polizia morale”, come in Arabia Saudita. Quanto a libertà religiosa, c’è sicuramente di peggio nel mondo, ma l’Indonesia è comunque classificata (al 47mo posto) fra i 50 Paesi in cui i cristiani sono maggiormente perseguitati, nella World Watch List stilata dall’associazione Open Doors.

L’esercito e la classe politica militare sopravvissuta alla fine della dittatura di Suharto, costituisce il singolo più grave problema, soprattutto per la minoranza cristiana. In 31 anni di regime di Suharto, l’esercito condusse un vero e proprio genocidio nella regione di Timor Est (occupata dall'Indonesia dal 1975 al 2002), ex colonia portoghese a maggioranza cattolica. Prima che Timor Est tornasse indipendente, i morti furono almeno 100mila, quasi tutti civili. La prolungata guerriglia contro i cristiani indipendentisti di Timor Est radicalizzò il conflitto religioso e l’esercito è tuttora il prodotto di quella ondata di islamizzazione. Benché democratico dal 1998 il governo risente ancora dell’influenza indiretta della casta militare. Nelle elezioni presidenziali dello scorso 9 luglio, 190 milioni di cittadini aventi diritto al voto avevano di fronte la duplice alternativa di una conservazione di quella classe dirigente militare, rappresentata, appunto, dall’ex generale Subianto e un governo più riformatore, rappresentato dal civile Jokowi. La scelta dei cristiani indonesiani è andata soprattutto a quest’ultimo, per ovvie ragioni. Vi sono certamente alcuni dubbi in merito a questo candidato progressista, che vuole implementare la pianificazione familiare per la riduzione delle nascite, quasi come in Cina: un massimo di 2 figli per coppia. Di converso, anche l’ex ufficiale cerca di accattivarsi il voto delle minoranze religiose ostentando un fratello cristiano e rapporti cordiali con il clero cattolico.

Tuttavia i cristiani temono molto di più Subianto che, oltre ad essere esponente della vecchia classe dirigente militare, gode dell’appoggio di gruppi e movimenti radicali islamici come lo United Development Party e gli ultra-fondamentalisti del Pks, partito che vorrebbe islamizzare tutta l’Indonesia, imponendo anche la barba agli uomini e il velo integrale alle donne. Il manifesto elettorale del partito Gerindra, che fa capo a Subianto, non manca di ambiguità. In esso si afferma, infatti, che “lo Stato garantisce la libertà religiosa”, ma il governo è “politicamente e socialmente obbligato a verificare come questa libertà viene concretizzata”. Ed è sempre compito dell'esecutivo e delle istituzioni dello Stato “garantire la purezza delle religioni riconosciute”. Formule ambigue che attribuiscono al governo un ruolo ridondante e mettono a rischio la libertà di religione. Se applicate in modo tendenzioso, potrebbero portare alla giustificazione di una repressione religiosa.