Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Cristo Re a cura di Ermes Dovico
il caso

«Incurabile». Il benvenuto di morte della stampa a Indi

Ascolta la versione audio dell'articolo

I media italiani si accodano al best interest sancito da medici e giudici definendo Indi «incurabile». Che però non è sinonimo di inguaribile. Un asservimento della stampa alla mentalità eutanasica dominante. 

Editoriali 08_11_2023

Il benvenuto della stampa nostrana alla nuova cittadina italiana Indi Gregory è carico di un’odiosa bugia.

I seguenti titoli e sommari sono tutti usciti nelle prime pagine di ieri. Corriere della Sera: «Cittadinanza alla piccola Indi che per Londra è incurabile»; Repubblica: «Indi Gregory, la bimba incurabile diventata italiana»; Messaggero: «...giudicata incurabile»; persino Avvenire, il quotidiano dei Vescovi cade nel tranello e nel sommario di prima scrive che la piccola ha una «patologia mitocondriale ritenuta incurabile»; Il Mattino: «Bimba gravemente malata e giudicata incurabile”; Gazzetta del Sud: «Bimba inglese incurabile”; TgCom: «Bimba inglese incurabile». Soltanto la Verità - come la Bussola – spiega bene chi sia Indi: è una bambina che i giudici inglesi voglio sopprimere perché disabile.

L’incurabile lo si lascia volentieri a valutazioni di tipo morale, che esulano dall’aspetto clinico. Indi può essere giudicata dalla scienza – e solo da essa – inguaribile. Ma nemmeno i medici possono definirla incurabile perché nessun essere umano è considerato incurabile. La cura non è la guarigione, ma quel complesso sistema di presa in carico di un essere umano che è fatto anche di terapie, ma non solo: attenzioni umane, idratazione, alimentazione, premure, interessi, farmaci in grado di mantenere in vita con dignità.

La cura è ciò che interessa di un uomo. E non è un caso che il principio che sta dietro alla decisione dei giudizi inglesi di sopprimere Indi, come già ha fatto per Alfie Evans, Charlie Gard e tanti altri piccoli martiri del best interest, sia proprio il concetto di miglior interesse stabilito a priori. E dentro il miglior interesse, la morte, non può essere cura. Anzi, è l’unica “cura” possibile.

Per sciatteria e per il vizio del copia incolla, il giornalismo di casa nostra, mainstream e portatore d’acqua d’istanze superiori, decide di rinunciare a usare la ragione e a guardare la realtà e si adegua al principio del best interest. Se il suo miglior interesse è quello di morire, non solo non si può guarire, ma non ha senso nemmeno curare.

Ecco perché difficilmente si potrà sostenere che i giornali a fotocopia abbiano scritto incurabile al posto di inguaribile, come avessero utilizzato un sinonimo. No. Il punto non è guarire Indi, per le cui speranze di guarigione, ci si affida solo ad un miracolo, ma il punto è proprio quello che certi esseri umani non meritano l’umana pietà di una cura che accompagni nella disabilità ad una vita dignitosa.

È così che il sistema mediatico si fa portatore dell’istanza cinica e spietata dei medici inglesi che dovrebbero avere in cura la piccola. Gioverebbe ricordare che la parola cura, nel suo significato etimologico deriva dal latino cor, il cuore, che è sede di affetti e di vita. Ne consegue che la curabilità di una persona debba sempre essere sempre garantita, anche se la guarigione non arriva o non arriverà mai. Un diabetico riceve dall’insulina la sua cura, anche se non guarisce. Può essere inguaribile, ma non incurabile. Per Indi, invece, che a detta dei genitori invece reagisce alle cure, questo non deve valere. Per lei non ci deve essere cura perché lei è il “prodotto” di una mentalità eutanasica che i media condividono senza curarsi del significato delle parole.

É un processo di cancellazione del malato che abbiamo visto anche durante la pandemia. Per il covid non c’era cura, quindi si sta a casa con Tachipirina e vigile attesa. Invece la cura era quel sacrosanto principio per il quale, in assenza di una terapia specifica, si poteva e si doveva intervenire con quelle cure mediche che consentissero all’organismo di combattere il virus. Con successo.

Non è un caso che il giuramento di Ippocrate faccia esplicito riferimento alla cura del paziente e non alla sua guarigione, perché questa è determinata da fattori che purtroppo non sono pienamente nelle mani della scienza. E nel testo antico di Ippocrate si impegna a «entrare nelle case dei malati per il loro sollievo». Non per la loro guarigione. Ma oggi la scienza deve essere performante ed efficiente. Se non garantisce questi standard, allora è la scienza stessa che si incarica di condannare a morte un essere umano.  

E così che, appena diventata italiana e con una sentenza di morte che pende sulla sua testa da parte dei giudici (la decisione avverrà oggi pomeriggio, mercoledì 8 novembre), mentre l’Italia cerca la strada giuridica per strapparla alle fauci dell’aguzzino, la nostra stampa si fa gran cassa dell’eutanasia accettando la definizione di incurabile come qualcosa di ineluttabile rendendo inutile ogni sforzo per salvarla perché la scienzah così ha deciso.

Una stampa che non è più libera, che smette di usare la ragione, ma è asservita ad un potere di cui è megafono. Una stampa che a conti fatti, questa sì, è incurabile.