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SCENARI

In Ungheria è in corso una guerra civile fredda

Attraverso l'attacco alla nuova Costituzione del Paese si scatena
il processo alla voglia di dare ancora senso alla parola "sovranità.

Attualità 11_01_2012
Viktor Orbán

 

L’Ungheria è sotto pressione. Chi la comprime è l’Unione Europea, che sfrutta un’annosa situazione di pelosa ambiguità creata dalla "transizione incompiuta" - ancora, a 21 anni di distanza - dal comunismo alla democrazia. «È una guerra civile fredda, quella che funesta il mio Paese, combattuta senza esclusione di colpi e oggi più scoperta che mai», dice András Lánczi, docente di Filosofia politica e di Storia delle idee politiche all’università Corvinus di Budapest. «E Bruxelles sta facendo di tutto per combatterla sul fronte sbagliato».

Uno dei problemi maggiori dell’Ungheria è, dice Lánczi, che nessuno sa leggerne la lingua (o mettergli gli accenti giusti al posto giusto, aggiunge sorridendo…) e così tutti ripetono  supinamente commenti di maniera o giudizi ideologici provenienti da chi, in Ungheria, detiene, se proprio non tutto il potere reale, certamente buona parte di esso. «Si ripete per esempio che il governo del primo ministro Viktor Orbán [nella foto] è improntato a uno smaccato nazionalismo. Non è vero. Le faccio un esempio illuminante. Noi cittadini dell’Ungheria non amiamo affatto chiamarci "ungheresi". Preferiamo "magiari". Questo secondo termine afferma la nostra vera identità culturale. Il primo, invece, fa riferimento all’epoca dei regimi autoritari attorno alle due guerre mondiali. Non ci piace. Se fossimo dei biechi nazionalisti non avvertiremmo il problema o penseremmo che il "fattore ungherese" assorba ed esaurisca per intero l’identità magiara. Ma così appunto non è. La nuova Costituzione dell’Ungheria afferma esattamente quello -oltre a porre santo Stefano alla radice del Paese, e ricordare cosucce come il fatto che il matrimonio è quello fra un uomo e una donna…».

In effetti, tutto in Ungheria parte dalla nuova Costituzione, a cominciare dai problemi che il Paese centroeuropeo ha con la UE.
Entrata in vigore il 1° gennaio 2012, riformata l’anno scorso per iniziativa del Fidesz, ovvero l’Unione Civica Magiara (Magyar Polgári Szövetség), partito d’ispirazione conservatrice e cristiana guidato da Orbán, la nuova legge fondamentale del Paese viene stigmatizzata come "paradittatoriale" e contestata dalla piazza. In verità da una piazza non gremitissima, fatto che, come osserva il britannico The Telegraph, conserva Orbán come uno dei più genuinamente popolari uomini politici di Ungheria. Certo, nel dirlo, il quotidiano britannico si compiace. In Orbán, infatti, pur con tutte le differenze, The Telegraph vede rispecchiati i forti venti antieuropeistici che da sempre scuotono la Gran Bretagna e che oggi, complici le manovre franco-tedesche, tornano a soffiare imperiosi. Perché il punto è proprio questo.

In Ungheria, la revisione costituzionale contiene diverse cose, ma insiste su alcuni punti fermi. Il forte senso d’identità nazionale e la difesa di alcuni "princìpi non negoziabili". Ciò però cozza contro i voleri di Bruxelles, più sospirati nell’aria e affidati a corrieri di seconda e terza mano che vergati apertamente in documenti timbrati. Bruxelles iniziò imponendo misure standard agli ortaggi commerciati nel Vecchio Continente e oggi pensa di poter imporre qualunque cosa a chiunque in nome di una sorta di homo novus elaborato nella provetta dei sui anonimi stanzoni di metalloplastica e vetro, dalla morale sessuale (e omosessuale) alla disciplina economica. Il tutto senza avere nulla di paragonabile a un governo politico e soprattutto eletto.

«Il varo della nuova Costituzione è un fatto senza precedenti», commenta Lánczi. «Potrà sembrare un commento di parte, ma, al di là delle partigianerie, è un’affermazione oggettiva. La Costituzione che vigeva prima, quella che ha regolato il Paese anche nei 21 anni che ci separano dal crollo del regime comunista, era, dal punto di vista giuridico, in continuità perfetta con quella scritta nel 1949 quando i comunisti presero il potere in Ungheria e seguirono pedissequamente il modello sovietico. Nessuno dei Paesi comunisti dell’Est ha conosciuto una situazione simile. Tutti, una volta liberatisi dai regimi totalitari, si sono dati una nuova Costituzione. L’Ungheria no».

Per Lánczi la questione spiega la situazione attuale. «La nostra è stata una transizione alla democrazia incompiuta: incompiuta tanto la democrazia a cui ci siamo affidati quanto la transizione avvenuta avvenuta solo in parte e male. I comunisti al potere sono velocemente scomparsi, si sono rapidamente trasformati in "socialisti" e così hanno avuto ampie possibilità di gestire aspetti importanti del trapasso».

Il premier Orbán pare avere capito bene almeno questo. «Errori? E chi non ne commette… Ma la questione vera è che Orbán si rende perfettamente conto oggi che la situazione è insostenibile e che occorre cercare di compiere ciò che ancora è incompiuto. La democrazia di cui l’Ungheria ha bisogno è quella piena e autentica, sia sul piano politico sia su quello economico. La libertà dei mercati, per esempio, è fondamentale: ma lasciare, come è stato fatto per più di un ventennio, che il Paese sia alla mercé di investitori stranieri sovente senza scrupoli non ha giovato né all’economia libera del Paese né alla percezione che una parte del Paese ha dell’economia libera. Orbán - dicevo - lo ha compreso, e con lui lo ha compreso quel numero enorme di magiari che lo hanno sostenuto e che continuano a sostenerlo elettoralmente». Dice Lánczi che le contestazioni di piazza ci sono, ma che spesso sono organizzate dai partiti politici di opposizione, dalla scaltra macchina propagandistica degli ex comunisti, oppure dai sindacati allorché il governo, di fronte alla crisi economica galoppante, pensa opportunamente di mettere mano a certi favoritismi inaccettabili, moralmente ed economicamente.

In questo preciso momento storico, l’attacco all’Ungheria passa del resto - che novità - proprio attraverso la questione dell’inaffidabilità di Budapest - dice "l’Europa" - nel far fronte al debito. A giocare al massacro con l’Ungheria, però, non sono direttamente "i mercati" quanto invece Bruxelles stessa, peraltro in tandem con il Fondo Monetario Internazionale, che sfrutta alcune manovre messe in campo dal governo ungherese - magari goffe, perché no -  per cercare di arginare l’assalto degli speculatori.

Come ha ben documentato Rodolfo Casadei sul settimanale Tempi, la crisi che Budapest attraversa è davvero grande. Il suo debito sovrano è «il più alto fra quelli dei paesi dell’Est membri della Ue (è pari all’80 per cento del Pil)», quest’anno deve pure «restituire il prestito di emergenza ricevuto dal Fmi nel 2008, quando il paese fu investito dalla crisi finanziaria di origine americana» e se «nel breve periodo l’Ungheria, come afferma Orban, è senz’altro in grado di onorare i suoi impegni grazie a discutibili misure ad hoc come la nazionalizzazione di alcuni fondi pensionistici e un’imposta speciale sui profitti delle banche», la situazione resta gravemente traballante.

Bruxelles lo sa e ne approfitta per assoggettare il Paese centroeuropeo accampando scuse.
Fra tutte, quella che oggi tiene banco è la riforma della Banca centrale che Orbán cerca di agganciare al controllo della politica. Discutibile certo; soprattutto chissà se efficace. Ma di evidente c’è che il problema vero è un Paese, l’Ungheria, che pensa che la parola "sovranità" abbia ancora un senso in Europa. Soprattutto perché, goffaggine per goffaggine, il giudizio che Bruxelles usa come un martello su Budapest non tiene conto delle peculiarità del Paese. Cioè della sua storia.

Anomala come essa è stata (e lunga), la storia comunista di un Paese che si trasforma (in modo lungo e difficile) in libertà genera per forza, oltre le intenzioni, persino le migliori, contraccolpi difficili da controllare. Che cioè, dopo la sbornia collettivista, all’Est insorgano problemi di nazionalismo è piuttosto logico, ancorché inaccettabile. Fingere che il nazionalismo non sia una reazione sbagliata a un problema più ampio serve solo a permettere al secondo di perdurare.

E non spiega nemmeno come mai oggi all’Est la voglia di non-comunismo sia, paradossalmente, in forte calo. Una ricerca del Pew Research Center di Washington, autorevolissimo, lo mostra bene. Risale al novembre 2009, ma la situazione - dicono osservatori accorti come Lánczi - non è mutata, anzi. «Se si prescinde da questa situazione di fondo e dai suoi gravami», dice Lánczi, «non si comprende Orbán, sue gaffes comprese; ma soprattutto non si comprendono quei magiari che la Sinistra evita persino di chiamare per nome indicandoli sempre e solo come “gli abitanti di questo Paese”. Il punto centrale, però, è se davvero si ha a cuore il volerle capire…».