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EMERGENZA SENZA FINE

In Sud Sudan si rischia un nuovo genocidio

Nel Sud Sudan, le etnie Dinka e Nuer hanno celebrato il quinto anno d’indipendenza del Paese nel modo più sciagurato: violando gli accordi di pace e riaprendo le ostilità. I morti si contano a centinaia. «In Sud Sudan si rischia il genocidio. La comunità internazionale intervenga prima che sia troppo tardi». È l’appello lanciato sull’agenzia Fides da una fonte della Chiesa cattolica.

Esteri 12_07_2016
Campo profughi in  Sud Sudan

Quest’anno i Dinka e i Nuer del Sud Sudan hanno celebrato il quinto anno d’indipendenza del Paese nel modo più sciagurato: violando gli accordi di pace e riaprendo le ostilità. Il 7 luglio, due giorni prima dell’anniversario, c’è stato un primo scontro a fuoco nella capitale Juba tra soldati fedeli al presidente Dinka, Salva Kiir, e al vice-presidente Nuer, Riek Machar. 

«È tornata la calma, non c’è motivo di allarmarsi», assicuravano le autorità quella sera. Ma il giorno dopo, gli scontri sono ricominciati più estesi e violenti. Il 10 luglio Machar ha denunciato la morte di decine di suoi soldati attaccati nei loro accampamenti dai militari Dinka. Adesso si combatte in tutta la città e nei dintorni. Il bilancio è ormai di quasi 300 morti tra cui anche diversi civili vittime del fuoco incrociato. 

È il terzo anno che il giorno dell’indipendenza in Sud Sudan trascorre combattendo. Il Paese è nato il 9 luglio 2011, staccatosi dal resto del Sudan per volontà popolare espressa tramite referendum, secondo quanto previsto dall’Accordo globale di pace firmato nel 2005. Quell’accordo aveva messo fine a una guerra durata decenni durante i quali il governo sudanese arabo islamico aveva fatto strage delle popolazioni africane cristiane e animiste del Sud, in modo ancora più spietato, al limite del genocidio, dopo la scoperta di enormi giacimenti di petrolio concentrati proprio negli Stati meridionali della Federazione.   

Il Sud Sudan è un Paese in macerie, manca del tutto di infrastrutture, ma dispone di un capitale umano invidiabile perché due terzi dei suoi abitanti hanno meno di 25 anni, inoltre con la secessione si trova padrone di due terzi dei giacimenti di petrolio sudanesi e può contare su investimenti e aiuti internazionali. Per mettere a frutto pace e indipendenza avrebbe soltanto bisogno di una leadership responsabile e capace. Nel 2011 ai Dinka e ai Nuer, le due etnie più numerose, erano andate gran parte delle cariche politiche e amministrative, con la presidenza a Salva Kiir e la vicepresidenza a Riek Machar. 

Gravava soprattutto sui loro leader il compito di governare bene e proteggere le istituzioni da tribalismo e corruzione, le due piaghe africane. Ma hanno fallito. Salva Kiir ha favorito sempre più i suoi Dinka a scapito delle altre etnie. Nell’agosto del 2013, ormai insofferente della situazione, Riek Machar, ha annunciato la propria candidatura alle successive presidenziali. Per tutta risposta Kiir lo ha destituito e poi lo ha accusato, mentendo, di aver tentato un colpo di Stato. L’esercito si è diviso, sono iniziati gli scontri armati e in poche settimane il Sud Sudan era di nuovo in guerra: una guerra feroce, atroce per torture, stupri, cannibalismo forzato, accanimento su donne e bambini, minacce di pulizia etnica. Nel frattempo, la produzione di petrolio, unica risorsa, è stata quasi del tutto interrotta per lunghi periodi.

Nell’agosto del 2015, Kiir e Machar hanno finalmente raggiunto un accordo con la mediazione della comunità internazionale. Due anni di guerra, decine di migliaia di morti, 2,3 milioni di profughi, quattro milioni di persone denutrite e tutto questo per tornare alla situazione di partenza: di nuovo presidente il primo e vicepresidente il secondo, a contendersi quante più cariche e potere possibili. Il giorno stesso della firma dell’accordo, il cessate il fuoco è stato violato e da allora è successo più volte. Solo lo scorso aprile le truppe di  Machar si sono fidate a tornare a Juba. Il loro leader, in salvo all’estero per due anni, è rientrato in patria il 26 aprile.   

Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha condannato le nuove violenze e si è detto scosso e indignato per gli attacchi alle basi della Unmiss, la missione Onu attiva dal 2011, attacchi che hanno causato la morte di due caschi blu cinesi e il ferimento di molti altri. Il Consiglio ha proposto l’invio di altri caschi blu. La missione in origine composta da circa 8.000 unità era già stata rafforzata nel 2013, allo scoppio della guerra civile, e attualmente dispone di 13.490 effettivi, tra militari e altro personale. 

Il portavoce militare del vicepresidente Machar, colonnello William Gatjiath, sostiene che la situazione èfuori controllo per colpa di Salva Kiir e dei suoi sostenitori che non sono disposti a rispettare i termini dell’accordo di pace. Di nuovo circola per contro l’accusa a Riek Machar di tentare un colpo di Stato: questa volta organizzato, si dice, con la complicità del presidente del Sudan, Omar Hassan al Bashir. Il recente moltiplicarsi di gruppi e bande armate fuori controllo accresce la difficoltà di ristabilire la pace. Inoltre, due anni di violenze hanno esasperato l’ostilità e la diffidenza etniche tradizionali e il Paese è profondamente diviso. Ma il problema fondamentale è che, come si è detto, gli accordi si sono limitati a ripristinare l’ordine politico preesistente e con esso le stesse tensioni e frustrazioni. 

La popolazione lo ha capito subito. Molti sfollati in questi mesi hanno quindi preferito rimanere nei campi allestiti per loro dall’Acnur. «Questo è il mio Paese, ma sapevo che la pace non sarebbe durata», diceva alla Bbc David Riing Gai, un profugo Nuer intervistato durante i combattimenti di questi giorni, «così ho deciso di continuare a vivere sotto protezione». David sta costruendo una casa per la sua famiglia, con il tetto di paglia e i muri di fango e legno, ma dietro un recinto di filo spinato, all’interno del campo profughi che lo ospita alla periferia di Juba.