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L'EDITORIALE

In quella Croce il valore del dolore

Di fronte alla sofferenza, ci poniamo una domanda: è la morte l’ultima parola di tutto? Cristo con la sua morte e resurrezione è la risposta: la nostra vita non muore, ma risorge.

Editoriali 22_04_2011

Le persone di fronte al mistero pasquale sono indifferenti. Eppure, è il messaggio più forte per capire il valore della sofferenza. Nel mistero pasquale la sofferenza e la morte che attanagliano la mente umana sono vinte, sorge la speranza di una vita completa, beata. Come portare l’uomo del nostro tempo a scoprire il valore del dolore? A cogliere che la gioia cristiana inizia il mattino di Pasqua? Questa gioia arriva dopo una lunga prova, un lungo cammino di sofferenza. È la morte trasformata in vita, preceduta dalla prova, dallo scandalo, dal tradimento, dall’abbandono e separazione.

Improvvisamente l’esperienza della morte e separazione si trasforma nella gioia della resurrezione e del ricongiungimento. La felicità cristiana sta nel passaggio dalla morte alla vita, dal dolore alla gioia, dalla schiavitù alla liberazione. La cultura odierna invece concepisce la gioia terrena frutto di un insieme d’emozioni, di scelte dirompenti, di possessi estesi. Non sa che cosa sia una vita elevata dalla grazia, trasformata interiormente dalla presenza del Signore risorto. La persona moderna si scandalizza di fronte al dolore, si ribella mentre lotta con la morte. Eppure la nostra gioia conosce diverse tappe, ognuna contenente la ricchezza finale, quella che sarà presente solo nel “granaio” di Dio.

Un dubbio però sussiste: l’uomo sa dare importanza al suo chicco di grano anche quando deve subire il buio, l’umidità della terra? In altre parole: è pronto ad accettare il dolore, la morte per la festa della nuova vita? 

Il danese Joergensen sviluppa questa parabola dal vangelo di Giovanni. Il chicco di frumento è perfettamente felice nel suo granaio. Niente pioggia, niente umidità, i piccoli amici del mucchio di grano sono molto gentili: è tutto perfetto. Un chicco di frumento molto pio ringrazia Dio della sua piccola felicità. Ha ragione a farlo. Ma un Dio che fosse soltanto l’autore e il garante della piccola felicità del chicco di frumento nel granaio, anche se questa felicità è assolutamente legittima, è un idolo. Può questo chicco essere veramente felice rimanendo solo nel granaio? Cosa dire poi di questo Dio impegnato esclusivamente su questo chicco, e non su tutti gli altri? Un bel giorno il mucchio di grano viene caricato su una carriola e portato in aperta campagna. La campagna è ancora più bella e gradevole del granaio. E così, davanti al cielo azzurro, al sole, ai fiori, gli alberi, le pianure e le montagne, il chicco ringrazia Dio ancora di più: «Signore ti ringrazio, tutto questo è talmente bello».

Ha ragione, bisogna ringraziare Dio delle cose belle che ci sono quaggiù. Ma è sempre un chicco di frumento: un Dio che facesse in modo che un chicco di frumento resti un chicco di frumento, un Dio che mantenesse il chicco nel granaio, senza nessuna fecondità, un Dio simile rimane un idolo. “Il chicco di grano, prosegue Joergensen,  viene conficcato nella terra. Non vede più nulla, non sente più nulla, l’umidità gli penetra fin nelle ossa. Sta per essere trasformato, per diventare quello che deve essere, cioè una spiga rigogliosa, rimpiange il granaio in cui, in effetti, era tanto felice. Dice quello che milioni di uomini dicono attorno a noi: se Dio esistesse, cose simili non succederebbero. E qui sta l’errore. Il vero Dio è quello che non lascia il chicco felice di una piccola felicità nel suo granaio, ma lo trasforma per farlo passare dallo stato di granello a quello di spiga; e questo è possibile solo attraverso la sofferenza, morte”.

La parabola del chicco di grano dice che Dio è colui che ci fa crescere, che ci fa passare da una condizione semplicemente umana a una condizione di uomo divinizzato. Sembra un’assurdità, ma qui si trova il superamento dei nostri limiti. La piena realizzazione di se stessi è la pienezza della felicità. Joergensen conclude così il racconto: “Allora il chicco di grano si abbandonò alla volontà del suo Creatore, e non seppe più nulla di nulla. Un mattino di primavera, un germoglio verde mise fuori la testolina dalla terra umida. Si guardò intorno inebriato. Era proprio lui, il chicco di grano, tornato a vivere un’altra volta. Nell’azzurro del cielo il sole splendeva e la lodola cantava. Era tornato a vivere… E non da solo, poiché intorno a sé vedeva uno stuolo di germogli in cui riconobbe i suoi fratellini”.

Carissimi amici, molte cose hanno un senso, per fortuna. L’amicizia, l’amore, la cultura, il progresso economico e sociale, la giustizia, il perdono. Ogni creatura esprime senso, significato. Ma c’è anche il non-senso. Si pensi alla ragazza di 20 anni affetta da un cancro, con pochi mesi di vita; alla violenza sui bambini, allo sfruttamento e riduzione in schiavitù… Davanti al non-senso, all’assurdo, ci può essere in noi una comprensibile ribellione. Un padre con quattro bambini che muore sulla strada per un incidente, è qualcosa d’incomprensibile. Un maremoto con migliaia di persone morte e molte ridotte all’estrema povertà, non ha senso. Di fronte a tanta sofferenza, ci poniamo una domanda: chi vincerà alla fine, il senso o il non-senso? E’ la morte l’ultima parola di tutto?

La morte si sa è l’ostacolo contro il quale cozza tutto quello che ha un senso. E siamo allora costretti a chiederci con Paul Valèry: “Tutto va sotto terra e rientra nel gioco”? Nessuno può evitare la domanda. Ma nel momento in cui ci si fa attenzione la domanda sul senso della vita si pone ineluttabilmente.

I credenti fanno propria la risposta di Cristo a questo interrogativo umano. Negano l’assurdo, il non senso e sono profeti e testimoni del senso. Cristo stesso si è fatto “non senso” sulla croce, non è fuggito dalla morte e ci ha dato una testimonianza chiara e definitiva di vita. Cristo con la sua morte e resurrezione è la risposta: la nostra vita non muore, ma risorge.