Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
San Colombano a cura di Ermes Dovico
INTERVISTA/SAKO

“In Iraq adesso si parla dell’importanza dei cristiani”

Dopo il viaggio apostolico di Francesco, “tutti parlano del rispetto della diversità” in Iraq e “noi cristiani camminiamo a testa alta”. Leader sunniti e di governo giudicano la visita un bene per il Medio Oriente. E Bergoglio “ci ha detto che la nostra Chiesa, nonostante migrazioni e martiri, è viva e forte”. Parla alla Bussola il cardinal Sako, patriarca di Babilonia dei Caldei.

Ecclesia 29_03_2021

Sono passate tre settimane dal primo viaggio apostolico dopo lo scoppio della pandemia. Il tour di Papa Francesco in Iraq ha catturato l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale e continua ad essere argomento di conversazione tra i leader internazionali. Dopo il commento del presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, che lo ha definito “simbolo di speranza per il mondo intero”, pochi giorni fa si è appreso di una telefonata tra Macron e Bergoglio nella quale il presidente della Repubblica francese ha detto che il viaggio ha rappresentato una “vera svolta per il Medio Oriente”.

L’eco del viaggio apostolico è ancora viva anche in Iraq? Lo abbiamo chiesto al cardinale Louis Raphael Sako, patriarca di Babilonia dei Caldei e terzo iracheno nella storia a ricevere la porpora.

Eminenza, da voi si continua a parlare della visita del Papa?
Se ne parla ancora molto. Pochi giorni fa, ricevendomi, il presidente dell’Ufficio del Waqf sunnita mi ha detto che la visita è stata incredibile e ha rappresentato un bene per tutto il Medio Oriente. Nelle strade di Baghdad ci si può imbattere nei manifesti con le immagini dell’evento e i media continuano a parlarne. Dopo la partenza del Papa, il primo ministro ha fatto un appello a tutte le forze per aprire un dialogo coraggioso nella prospettiva di una riconciliazione nazionale, da costruire nel solco tracciato dalla visita di Francesco. Ma credo che i discorsi del Santo Padre sapranno influenzare non solo la società irachena, ma anche quella libanese e siriana.

Cosa è cambiato tra la sua gente? Sta riscontrando un atteggiamento diverso?
Ora tutti parlano del rispetto della diversità. Il Papa lo ha detto: siamo fratelli, ma diversi. E gli iracheni lo hanno preso sul serio. Noi cristiani, in particolare, camminiamo a testa alta dopo la visita del Papa. Non solo per strada, ma anche sui media si sente parlare dell’importanza della componente cristiana nella società irachena.

In Occidente c’è stato chi si chiedeva se fosse proprio necessario questo viaggio con le difficoltà logistiche che presentava. Non pensa, invece, che sia ancor più da apprezzare il coraggio del Papa che ha voluto farlo a tutti i costi nonostante la pandemia e il pericolo terrorismo?
È stata una decisione molto coraggiosa. Credo che lui abbia sentito addosso la responsabilità come capo della Chiesa, ma anche come grande leader dell’umanità, di venire ad aiutare la nostra gente nonostante i problemi legati alla sicurezza e alla pandemia. Grazie a Dio è andato tutto bene, le autorità hanno fatto di tutto per preparare la visita alla perfezione. Durante i giorni della visita e anche nei preparativi, l’Iraq è stata una squadra che ha remato tutta dalla stessa parte. Il successo dell’evento dovrebbe insegnarci che quando si è uniti si possono raggiungere buoni risultati.

Le parole di Francesco a Mosul favoriranno il ritorno in Iraq dei cristiani emigrati?
Il ritorno dei nostri fratelli dipenderà da come sarà l’Iraq di domani. Bisogna creare le condizioni per una pace e una stabilità duratura, dare servizi e lavoro alle persone. Oggi c’è instabilità ed è difficile che chi è emigrato possa tornare, ci vuole tempo. Ma sono convinto che in futuro la presenza e le parole del Papa possano incoraggiare i cristiani a tornare. A questo proposito, c’è una cosa, in particolare, che mi resterà del viaggio apostolico.

Quale?
Il Papa ci ha detto che la nostra Chiesa, nonostante migrazioni e martiri, è una Chiesa viva e forte. Questo è un grande incoraggiamento ad andare avanti senza tenere conto di quanti siamo. Noi abbiamo una vocazione: testimoniare il Vangelo in una società dove la maggioranza è musulmana. L’essere una Chiesa viva e forte, come ci ha detto il Papa, ci ricorda che possiamo essere protagonisti nel provare a cambiare la società, perché non conta il numero ma la qualità con cui lo si fa.