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USA

Impeachment: come i Democratici si giocano tutto

L'impeachment del presidente Usa Donald Trump è stato avviato anche formalmente con un voto alla Camera il 31 ottobre. Ma i Democratici hanno poco da festeggiare, perché la maggioranza non è bipartisan: tutti i Repubblicani hanno votato contro. E anche fra i Democratici si contano due diserzioni. Perché l'impianto accusatorio è scarno.

Esteri 02_11_2019
Nancy Pelosi

Il 31 ottobre è stato votato alla Camera l'avvio della procedura di impeachment del presidente Donald Trump. D'ora in avanti, le audizioni al Congresso e le testimonianza potranno essere rese pubbliche. E i Repubblicani alla Camera hanno avuto modo di festeggiare Halloween facendo un grosso scherzo ai Democratici: inviando ai loro uffici decine di scatole da trasloco, quelle che si usano abitualmente nei licenziamenti, per raccogliere gli oggetti personali del licenziato. Ma se la Camera ha votato per l'impeachment, come mai non sono i Repubblicani a temere il trasloco? Non è solo un modo di ostentare sicurezza a fini elettorali: il risultato della votazione alla Camera non era quello sperato dai Democratici. La maggioranza c’è, ma non è bipartisan.

Quella emersa il 31 ottobre è una maggioranza di 232 deputati contro 192. Come sottolinea Kevin McCarthy, capogruppo dei Repubblicani alla Camera, “L’unico voto bipartisan, oggi (il 31 ottobre, ndr), è stato contro l’impeachment”. Perché se tutti i Repubblicani hanno votato contro, non tutti i Democratici si sono detti a favore. Due mancano all’appello: Jeff Van Drew del New Jersey e Collin Peterson del Minnesota, entrambi rappresentanti di distretti in cui Trump ha vinto nel 2016.

Se è risicato il voto che dà anche formalmente il calcio di inizio alla rara (la quarta nella storia degli Usa) procedura di impeachment, è soprattutto perché l’impianto accusatorio messo in piedi dai Democratici contro il presidente Trump è ancora abbastanza scarno. L’inchiesta è partita da una soffiata di un agente della Cia anonimo, che accusava il presidente di aver telefonato al suo omologo ucraino Zelensky, per chiedergli di investigare su Hunter Biden, il figlio del candidato presidenziale dei Democratici Joe Biden, sospettato di corruzione. Secondo la fonte che ha dato origine al tutto, Trump avrebbe anche ricattato Zelensky, lasciando intendere che sarebbero stati sospesi gli aiuti destinati all’Ucraina e già approvati dal Congresso, se non si fosse scavato sulla corruzione di Biden il giovane.

La pressione sull’Ucraina è stata poi confermata, nel corso delle indagini in ottobre, da altre fonti: Kurt Volker, negoziatore americano in Ucraina, Fiona Hill, ex collaboratrice di Trump sugli affari russi, William Taylor, incaricato d’affari dell’ambasciata Usa a Kiev. Altre testimonianze si riferiscono solo indirettamente a preoccupazioni sui rapporti fra l’amministrazione Trump e Kiev. E a tutto ciò si sovrappone anche la vicenda della rimozione dell’ambasciatrice americana in Ucraina, Marie Yovanovitch, licenziata perché, secondo l’accusa, si sarebbe opposta a questo ricatto. Tuttavia mancano ancora riscontri oggettivi e confronti incrociati delle testimonianze.

I Repubblicani accusano la controparte di voler effettuare un colpo di mano. Non solo la mancanza di un voto bipartisan per far partire la procedura, ma anche la procedura stessa sarebbe faziosa, a detta dell’opposizione: solo pochissimi deputati ammessi ai lavori (appena 22 in tutta la Camera), testimoni accettati solo dietro consenso della maggioranza Democratica, poche o nessuna possibilità per la Casa Bianca di difendersi, troppo potere conferito alla commissione per l’intelligence e al suo presidente, il deputato Democratico Adam Schiff. Queste le accuse dei Repubblicani, a cui Nancy Pelosi, presidente della Camera, ieri rispondeva affermando che: “Queste regole sono le più eque che si siano viste finora, in materia di impeachment”. Ai critici aveva già spiegato il fatto suo sulla necessità di indagare: “Se non ci fossero questi meccanismi di pesi e contrappesi, potremmo anche limitarci a eleggere il presidente e andare a casa”.

Il problema per i Democratici è che rischiano veramente di andare a casa nel 2020, se non dovesse giungere in tempo l’incriminazione del presidente, prima delle elezioni (fra un anno e una settimana, a partire da oggi). Lo scorso marzo, lo stesso Adam Schiff affermava che se le prove raccolte non fossero state sufficienti a convincere una maggioranza bipartisan, sarebbe stato meglio non avviare neppure la procedura. Pochi mesi dopo, una sola soffiata su una telefonata ha fatto avviare tutto l’ingranaggio dell’incriminazione. Ed evidentemente le prove raccolte finora non sono state sufficienti a convincere una maggioranza bipartisan (se persino due Democratici hanno disertato il loro campo…). Ma ormai è troppo tardi per tornare indietro. Evidentemente la sinistra americana ha fretta, vuole capitalizzare subito lo shock dell’odiato presidente sotto inchiesta, da mostrare alla sua base come resa dei conti finale. Di impeachment si è parlato da subito, sin dal 2017, ma altri casi come il Russiagate non hanno portato al suo avvio. Questa può essere l’ultima occasione. E il polverone sollevato potrebbe nascondere qualcosa in casa dem. Non è un caso che tutto sia partito da un inizio di indagine su Hunter Biden. E sul fatto che sia stato Joe Biden, in veste di vicepresidente di Obama, a fare pressione sull’Ucraina, perché non indagasse sul figlio. Sono tutti innocenti fino a prova contraria, Trump incluso.