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EDITORIALE

Immigrati, se l'accoglienza diventa un equivoco

L'esemplare accoglienza dimostrata da volontari e militari nel soccorrere gli immigrati arrivati via mare, non può essere tradotta automaticamente in "politica delle porte aperte": è una forma di irresponsabilità che sta aggravando l'emergenza.

Editoriali 21_05_2014
Barcone immigrati

I barconi continuano ad arrivare quotidianamente sulle nostre coste, e la Libia in fiamme promette di accelerare ulteriormente questo processo di «invasione». Davanti a questa tragedia e alle sue dimensioni, come ha detto papa Francesco lunedì ai vescovi italiani, «nessuno volga lo sguardo altrove». C’è un’umanità sofferente, un’umanità che fugge dalla miseria e dalla violenza alla ricerca di un po’ di pace, di un qualsiasi lavoro per vivere decentemente, di un minimo di stabilità e di relazioni sociali umane. Tutte cose che noi diamo ormai per scontate, ma che scontate non sono: non solo per chi è anche disposto a rischiare la vita e separarsi temporaneamente dai propri affetti; ma anche per noi, e molti stanno cominciando ad accorgersene. Queste folle che premono ai nostri confini sono dunque anche un richiamo per noi, una domanda sulla nostra vita.

Ieri, parlando sempre all’assemblea dei vescovi, il presidente della Conferenza episcopale, il cardinale Angelo Bagnasco, ha giustamente ricordato il dovere dell’accoglienza e dell’assistenza, per cui peraltro si stanno prodigando «tante realtà diocesane» che sul territorio costituiscono una rete capace di rispondere adeguatamente con «un’accoglienza semplice e cordiale, fatta di gesti concreti». Ma Bagnasco ha fatto riferimento anche alla necessità che l’Europa si fermi urgentemente a riflettere e a studiare soluzioni che non sono facili, ma che devono «tener conto di tutti i fattori in gioco» per «giungere a scelte condivise ed efficaci». 

E’ questo un punto che vale la pena approfondire perché è qui che si genera un pericoloso equivoco. Anche per i nostri governanti, infatti, il richiamo all’intervento dell’Europa si gioca esclusivamente sul fronte dell’aiuto economico alle operazioni di pattugliamento nel Mediterraneo e della redistribuzione nei diversi paesi europei degli immigrati che arrivano quasi esclusivamente in Italia.

Ma questo, come abbiamo spiegato più volte, non è affrontare seriamente il problema tenendo conto di tutti i fattori in gioco. E l’accoglienza e la generosità che pure sono doverose nel gestire l’emergenza, non possono essere tradotte automaticamente in “politica migratoria”. Quello che sta avvenendo dimostra – per chi vuole vedere – l’estrema pericolosità della politica delle porte aperte, che trova una significativa espressione nella sciagurata missione “Mare Nostrum”: non solo non serve ad evitare tragedie in mare, come abbiamo visto la settimana scorsa, ma pone le premesse per tragedie ancora più gravi. 

In questo senso quella esemplare accoglienza dimostrata da migliaia di volontari e militari che si danno da fare senza sosta per rendere più sopportabile il dramma di tante persone, trasformata automaticamente in “politica” diventa il segno di una irresponsabilità e di una incapacità a giudicare e risolvere i problemi di cui si dovrà rispondere.

I politici hanno il dovere di «tener conto di tutti i fattori in gioco»: questo vuol dire considerare che il primo diritto violato di queste persone è stato quello di poter vivere, lavorare e costruire nella propria terra; vuol dire rendersi conto che la migrazione è controllata e gestita da organizzazioni criminali e terroristiche che prosperano su questa tratta delle persone che, prima di partire per l’Italia dalle coste libiche, hanno già girovagato per mesi e anni schiavi di coloro che promettono la salvezza; vuol dire avere presente che quelli che riescono a imbarcarsi sono solo una parte di quelli che effettivamente avevano lasciato i propri paesi e che in buon numero hanno già perso la vita nel tragitto verso il Nord Africa; vuol dire tenere in considerazione che, se si mandano segnali sbagliati, ci sono milioni di persone che potrebbero in breve tempo mettersi in viaggio alla volta dell’Italia; vuol dire tenere in considerazione la reale possibilità dell’Italia e di altri paesi europei di assorbire questo tipo di immigrazione; vuol dire rendersi conto che allo stato attuale basta un nulla per creare in Italia una emergenza sociale o sanitaria dalle conseguenze imprevedibili. E si potrebbe continuare.

Ma certamente ce ne è abbastanza almeno per mettere a fuoco alcuni punti: nei giorni scorsi abbiamo avanzato una proposta (leggi qui) per gestire l’emergenza attraverso la creazione di una “fascia di sicurezza” sulla costa libica: con il coinvolgimento di Ue e Alto Commissariato dell’Onu per i Rifugiati si potrebbero gestire le operazioni di “screening”, ovvero di identificazione e riconoscimento di coloro che hanno effettivamente diritto all’asilo politico, così da distribuirli ordinatamente nei paesi di accoglienza, e impedendo così agli altri di rischiare la vita in inutili viaggi (e in questo modo si taglierebbero anche i grandi guadagni delle organizzazioni criminali). Ma per affrontare la questione in modo globale e sul lungo termine, l’Unione Europea deve anzitutto puntare su due priorità nei rapporti con i paesi poveri: politiche di sviluppo e lavorare per la stabilità.

Il primo punto non richiede maggiori risorse finanziarie, ma il “ripensamento” di quelle già investite: è ora di dire con chiarezza che le ingenti risorse impiegate per promuovere il controllo delle nascite nei paesi poveri devono essere convertite in reali progetti di sviluppo. L’idea che la povertà sia generata dalla sovrappopolazione è chiaramente una forma di ideologia sistematicamente smentita dalla realtà. Così invece di garantire il necessario sviluppo umano integrale – che peraltro come conseguenza porta anche una riduzione dei tassi di fecondità – in tutti questi anni la Ue ha impegnato i fondi per l'aiuto allo sviluppo - pagati con le nostre tasse - in diffusione a tappeto di contraccettivi e kit per l’aborto anche nei campi profughi. Con i risultati che vediamo.

Allo stesso modo vanno ripensati gli interventi nelle situazioni di crisi internazionali: il caso della Libia è clamoroso, paghiamo oggi – e pagheremo ancora di più prossimamente - la scelleratezza di un intervento militare che ha posto le basi per il caos e per l’incentivo alle partenze verso le coste italiane (per non parlare dell'approvvigionamento energetico). Ma la stessa cosa vale nei confronti dei paesi da cui l’emigrazione ha origine.

Il problema che si pone è se davvero c’è oggi un governo in grado di affrontare seriamente la questione e portarla a Bruxelles. Quello italiano, per evidenti ragioni, dovrebbe essere il primo ma finora non ha dato certo segnali incoraggianti. Né incoraggiante è stato fin qui il dibattito per le elezioni dell’Europarlamento. E intanto l’emergenza si aggrava.