Il volto cristiano di Francesco De Gregori
Le canzoni sono disseminate di rimandi cristiani e la sua amicizia con una suora mette in luce la sua tensione verso il divino.
«Sotto le stelle del Messico a ritornàr / e quando arriva le nuvole a rincasàr / e quando piove nel fango a trasumanàr..». E’ questa la parola chiave per entrare nel segreto mondo di Francesco De Gregori: trasumanar. Cara al suo Pasolini più caro, mentre Dante, dall’alto, non può che benedire. Per via di tutti quei tempi messi al modo infinito, il cantautore romano racconta che avrebbe voluto titolare la canzone citata “Infiniti tronchi”, scartando poi l’idea «per paura che qualche critico musicale la scambiasse per una canzone su una foresta sterminata». E proprio la pigrizia di molti addetti ai lavori, beffardamente additata da De Gregori, spiega come mai si è dovuto aspettare tanto perché qualche critico portasse alla luce l’orizzonte cristiano che informa le sue canzoni. Eppure è lì, evidentissimo.
Tra Pasolini e Dante
Pasolini, rispondendo allo scrittore francese Jean Duflot che lo accusava di dedicarsi troppo ai temi del mito trascurando realtà e attualità, rispondeva: «È realista solo chi crede nel mito». E lo spiegava scrivendo di quel San Paolo che dopo l’esperienza mistica sulla via di Damasco, con le sue lettere alle prime comunità cristiane è diventato il più grande organizzatore della Chiesa. “Trasumanar e organizzar”, appunto. Pochi lo ricordano, ma Pasolini trae il titolo della sua celebre raccolta di poesie proprio da questo riferimento a Paolo di Tarso, da questo suo doppio momento: carisma e istituzione, si direbbe in termini ecclesiologici.
Canta Francesco De Gregori in A Pa’, forse il suo pezzo più bello: «Voglio vivere come i gigli dei campi..» (che non lavorano e non filano eppure neanche re Salomone vestiva come loro), «..come gli uccelli del cielo campare» (che non seminano e non mietono ma c’è chi procura loro il cibo). Una canzone modellata sul capitolo 6 di Matteo. Canzone che il cantautore dedica a Pa’, all’amato Pasolini, a chi cioè ha rincorso il Vangelo secondo Matteo, a chi, nella poesia-testamento Saluto e augurio, splendidamente cattolica, esorta instancabilmente a «Difendere, conservare, pregare».
Pur in un gioco di specchi e rimandi, proprio di chi frequenta l’arte, e a forza di percorrere la “via pulchritudinis”, quella via della bellezza che gli ultimi papi hanno così fortemente caldeggiato per gli artisti, in tutta la produzione degregoriana si avverte la tensione a oltrepassare l’umano per aderire a qualcosa di più alto. A trasumanar, come vuole il neologismo dantesco.
Ma per “organizzar” che cosa? Nuove categorie del pensiero, stili di vita, certezze che parevano inattaccabili per un profeta della sinistra italiana. Vediamo. «Lei è agnostico? », «Sempre meno». (De Gregori sul Venerdì di Repubblica, 2005). «Crede in Dio? », «Se dovessi dare una risposta secca direi di sì». Quanto alle certezze che s’infrangono, Paolo Vites, critico musicale e intimo amico del cantautore, fa notare che durante le celebrazioni dei 40 anni del 1968 «De Gregori è stato l’unico in Italia ad andare contro, con una canzone intitolata, appunto, Celebrazione, che però faceva a pezzi i miti del '68». C’è di più. Per Vites «anche sulla difesa della vita De Gregori è oggi su posizioni convintamente antiabortiste». Esattamente come Pier Paolo Pasolini.
Amico della suora
Che dire poi dell’”infatuazione” di De Gregori per la formidabile Suor Rosalina Ravasio e per i suoi ragazzi della comunità di recupero Shalom? L’amicizia tra i due dura da tempo e le visite del cantautore alla comunità di Palazzolo sull’Oglio, nel bresciano, luogo di redenzione per 270 ragazzi in cura da droga, alcol e prostituzione, qualche legittima curiosità di certo la consentono.
Con Dylan, Cohen e MacCharty compagni di viaggio
Poeta civile Francesco De Gregori lo è sempre stato. Per giunta sempre più “ecumenico”: “Il cuoco di Salò” con quella sua pietas verso i giovani repubblichini, «quindicenni morti dalla parte sbagliata», fu uno shock per tanti bacchettoni. O forse solo un atto dovuto, con quello zio partigiano suo omonimo (anch’egli all’anagrafe Francesco De Gregori), vicecomandante della cattolica Brigata Osoppo trucidato a Porzûs dai partigiani “rossi” filo-titini. Insieme a Guido Pasolini, fratello di Pierpaolo. E qui l’intreccio tra il poeta friulano e il cantautore romano si fa arcano e toccante.
“La storia siamo noi, nessuno si senta offeso” è poi un incipit che costringerebbe a un coscienzioso colpo di reni anche il più debosciato frequentatore di rave. E se è vero che le canzoni una volta nate vivono di vita propria, “La Storia” è quanto di più antirelativista si possa ascoltare da un cantautore della vecchia guardia: «La storia entra dentro le stanze, le brucia / la storia dà torto e dà ragione». Rileggendola, c’è molto più Michelangelo con il suo Giudizio che Elsa Morante con la sua idea di una storia cieca e spietata.
Ma che le canzoni del “Principe della sineddoche” (così in uno striscione l’ha immortalato un brillante fan) siano intrise di rimandi religiosi, per chi sa del suo amore viscerale per Bob Dylan e Leonard Cohen, poeti impastati di antico testamento, non stupisce. E se poi un altro suo intrigante compagno di viaggio è il cattolico Cormac MacCharty, ovvero lo scrittore dell’Apocalisse e della Grazia, il Dostoevskij americano di cui De Gregori confessa di aver divorato «dal primo all’ultimo libro», siamo davanti alle affinità elettive di una gran bella compagnia. Decisamente interessanti, poi, le parole forti dell’ultimo suo compagno di viaggio, quel Lucio Dalla con cui De Gregori s’è accompagnato nell’ultima fortunata tournée, Work in Progress. Confidava Dalla al compianto vaticanista Giuseppe De Carli: «Per la mia fede in Gesù ho buttato in aria un mondo», «oggi non perdo una messa e giro col rosario in tasca».
Il libro del semiologo
Eppure si è dovuto aspettare Paolo Jachia, professore di Semiotica all’Università di Pavia, e il suo “La donna cannone e l’Agnello di Dio. Tracce cristiane in Francesco De Gregori” (Áncora, 2009) per arrivare a leggere ufficialmente l’arte degregoriana nella sua prospettiva più naturale. Come un restauro fa scorgere il dipinto dietro il dipinto, così il libro di Jachia permette una suggestiva rilettura di molti classici del cantautore in una chiave tutta nuova.
Ma forse bastano anche solo i titoli di tante sue canzoni per essere condotti per mano su una precisa via interpretativa. Non dicono niente titoli come “Cercando un altro Egitto”, “L’angelo”, “Natale di seconda mano”, “Giovanna D’Arco”, e poi “Il Panorama di Betlemme”, “Condannato a morte”, “Santa Lucia”, “L’Agnello di Dio”, “L’angelo di Lyon”, “Gesù Bambino”? Diceva Qualcuno: «Dov'è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore»...
L’ultima parola spetta a De Gregori, che il 4 aprile scorso ha compiuto sessant’anni. «Cattolico di ritorno», proprio così dice di sé il cantautore in una delle sue più recenti canzoni. Dobbiamo crederci? Probabilmente sì, chissà. Ci permettiamo solo una postilla: se c’è una cosa su cui non si può non concordare, e che anzi è certa, certissima, è quanto l’artista romano mette in bocca a Bufalo Bill: «Il verde brillante della prateria dimostra(va) in maniera lampante l'esistenza di Dio». Come dire la quarta via di San Tommaso.