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PAPA FRANCESCO

Il vero significato della giustizia sociale

La "Giustizia sociale" evocata da Papa Francesco è intesa dal grande pubblico come uno Stato che prende ai ricchi per dare ai poveri, una carità imposta. Ma nel corso dei secoli, la dottrina cattolica non ha mai detto nulla di simile.

Cultura 08_12_2013
Papa Francesco

Avendo trascorso gran parte della sua vita a Buenos Aires, Papa Francesco ha dato prova di potersi elevare ben al di sopra dell’ambiente culturale che lo ha circondato. Come il suo compatriota, il vescovo Alberto Bochatey, ricorda, «è un uomo di poche parole». Ho vissuto metà della mia vita a Buenos Aires e posso dire che è ben difficile trovare un leader con il suo esemplare contegno e al suo modo di dare personalmente l’esempio. Gran parte della sua Argentina è stata dirottata da una cultura politica dominata dalla “giustizia sociale”. Ci sono buone speranze che Papa Francesco si elevi al di sopra di questa cultura e aiuti a ricordare un diverso tipo di giustizia sociale, che è stata elaborata e sviluppata da membri del suo ordine religioso.

Dal momento in cui la “giustizia sociale” è diventata una costante nel repertorio dei politici argentini, il Paese è precipitato nel dirupo. Avvenne negli anni ’40, quando il colonnello Juan Domingo Peron creò il Partito Giustizialista. Peron, ammiratore di Benito Mussolini, era un seguace dei suoi insegnamenti. In ogni Paese in cui è stato adottato, il fascismo ha cambiato nome. La parola latina “fascio” viene da uno dei simboli usati dai romani per indicare la giustizia. I fasci erano asce portate dai magistrati quale simbolo dell’autorità del potere politico e la sua facoltà di punire e rendere esecutiva la giustizia. Peron fece della “giustizia sociale” l’asse portante della sua politica.

Quella definizione, tuttavia, non venne creata allora. L’economista premio Nobel Friedrich August Von Hayek non sbagliava quando scrisse che il termine divenne comune dopo che un noto gesuita, Luigi Taparelli d’Azeglio (1793-1862), lo usò in quello che sarebbe diventato il più importante trattato sulla Legge Naturale in lingua latina del XIX Secolo. Il libro di Taparelli venne tradotto in spagnolo e in francese, ma mai in inglese. Probabilmente questa lacuna spiega perché Hayek sbagliò a considerare l’uso della “giustizia sociale” da parte di Taparelli nello stesso, corrotto, modo con cui fu usato in seguito e cioè “prendere al ricco per dare al povero”. Come ha rilevato Thomas Patrick Burke in un suo libro e in un recente articolo, Taparelli apparteneva a una ricca tradizione in cui la giustizia sociale aveva poco o nulla a che vedere con le politiche statali di redistribuzione. La sua giustizia sociale si riferiva maggiormente al concetto di “ordine nella società” e ad una “giustizia che andasse oltre le aule dei tribunali”.

Anche i suoi concorrenti, giganti intellettuali quali padre Antonio Rosmini Serbati (1797-1855), avevano un punto di vista simile su questo argomento. L’idea di Rosmini venne condannata per un certo tempo. La sua causa di beatificazione venne avviata da Giovanni Paolo II ed egli divenne il primo uomo beatificato da Papa Benedetto XVI. Rosmini scrisse La costituzione secondo la giustizia sociale. È stato pubblicato di recente dell’Acton Institute, con una straordinaria introduzione del traduttore, Alberto Mingardi. Mingardi, fondatore dell’Istituto Bruno Leoni, scrive: «Rosmini contesta apertamente le politiche redistributive, che limitano o sequestrano la proprietà privata nel nome di una solidarietà obbligatoria».

Durante i secoli che vanno da Aristotele ad Adam Smith, troviamo un gran numero di filosofi e giuristi che si sono concentrati sulla giustizia distributiva. È pressoché impossibile trovarne qualcuno che si adatti alla “giustizia sociale” peronista. Salari profitti e rendite erano sempre considerati parte della giustizia commutativa, o legge dei contratti. La giustizia distributiva era invece considerata per la tassazione, i premi e i privilegi. Anche coloro che avevano a cuore la sorte dei più poveri, come il gesuita Juan de Mariana (1536-1624), ritenevano che l’uguaglianza di fronte alla legge richiedesse una certa dose di disuguaglianza, come il fatto che i più produttivi debbano poter guadagnare di più. Mariana era un grande studioso e i suoi numerosi scritti lo resero letteralmente un think tank in una sola persona. I suoi lavori erano noti a Thomas Jefferson e James Madison. Un piccolo ma efficace think tank che analizza e promuove il libero mercato, ora porta il nome di Instituto Juan de Mariana, in Spagna.

Sfortunatamente non solo Hayek, ma anche molti altri grandi intellettuali contemporanei e anche alcuni gesuiti stessi, citano poco questa tradizione. L’approccio alla giustizia sociale di altri famosi intellettuali gesuiti, che ebbero una grande influenza sulla dottrina della Chiesa, era decisamente diverso dall’attuale interpretazione redistributiva. Mateo Liberatore (1810-1892) era un difensore della proprietà privata e giocò un ruolo importante nello stilare la prima grande Enciclica sociale della Chiesa, la Rerum Novarum (1891). Ricordò ai lettori che: «Su questo aspetto dei diritti, dobbiamo vigilare diligentemente contro l’eccesso di autorità dello Stato».

Un altro gesuita, Oswald Nell-Breuning (1890-1991), che giocò un ruolo simile a quello di Liberatore nel redigere l’Enciclica Quadrigesimo Anno (1931), venne successivamente accusato di promuovere un’idea corporativista dell’economia. Nonostante tutto, scrisse di essere contrario ad una giustizia sociale che fissa i salari al di sopra del livello che rende ingestibile l’impresa. Da quando, un lettore di questo articolo, ha sentito per l’ultima volta un prete dire dal pulpito che salari troppo alti sono contrari alla giustizia sociale?

Io non so se Papa Francesco abbia studiato i lavori degli autori qui citati e di altri straordinari intellettuali gesuiti. I gesuiti più recenti hanno presentato anch’essi le loro visioni dell’economia e queste hanno ben poco a che vedere con l’interpretazione peronista della giustizia sociale. James Sadowsky, della Fordham University, morto di recente, ha dato un importante contributo agli studi economici, aprendo gli occhi di molti pensatori liberali sulla Legge Naturale. Fra questi, il più importante è Murray Rothbard, co-fondatore del Cato Institute e più tardi del Mises Institute (i principali think tank promotori del libero mercato, ndr). James V. Schall, della Georgetown University, recentemente andato in pensione, ha dato anch’egli grandi contributi. Il suo Religione, benessere e povertà, pubblicato decenni fa dal canadese Fraser Institute, è ormai un classico per tutti coloro che sono interessati alla religione e alla libertà economica.

La giustizia sociale è e continuerà ad essere parte integrante della dottrina cattolica. Questo tema è contemplato ai punti 410-414 del Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica. La società pratica la giustizia sociale quando rispetta la dignità e i diritti della persona, quale fine della società stessa. Il ruolo dello Stato e della società civile è dunque quello di provvedere alle condizioni che “permettono ad associazioni e individui di fare ciò che è il loro dovere”. Si riconosce che certe ineguaglianze non siano ingiuste e “rientrano nel disegno di Dio, ma ci sono altre disuguaglianze che derivano dal peccato e strutture e istituzioni che le aumentano e le incentivano in modo perverso”. Stando alla Dottrina, la solidarietà si manifesta in primo luogo con una giusta distribuzione dei beni, una corretta retribuzione del lavoro e l’impegno per un ordine sociale più giusto. La solidarietà non esclude la possibilità di opporsi a politiche statali. Karol Wojtyla, prima di diventare Papa Giovanni Paolo II, scrisse che opporsi all’educazione statale può essere considerato come un atto di solidarietà.

Data la popolarità del termine e la sua pericolosa comparsa nei dibattiti economici ed accademici negli Stati Uniti, i difensori della libertà, gli imprenditori intellettuali e gli studiosi devono concentrare di più la loro attenzione sulla giustizia sociale. La Philadelphia Society, che sta celebrando il suo 50mo anniversario proprio quest’anno, dedicherà il suo simposio annuale, all’inizio di aprile, proprio al tema della giustizia sociale. Questa società ha cercato di rimanere estranea alle numerose divisioni fra conservatori e liberali. Era un luogo in cui economisti liberali come Milton Friedman, un’icona del conservatorismo come Russell Kirk e un “fusionista” quale Frank Meyer, potevano sedere attorno allo stesso tavolo e influire sulla redazione del programma. Questo luogo di dibattito non è mai cambiato. Seguaci e nuovi studiosi di quelle stesse tradizioni liberali e conservatrici saranno parte dei prossimi dibattiti. Un buon esempio è costituito dal professor John Tomasi, il fondatore e direttore del Brown University Political Theory Project. Tomasi dedicò un capitolo del suo libro L’equità del libero mercato alla giustizia sociale, con il titolo provocatorio: Social Justicitis.

Gli ultimi lavori di William H. Hutt, un economista con impeccabili credenziali di sostenitore del libero mercato, scrisse che «benché questa nozione sia radicata nella mente di coloro che la usano, (la giustizia sociale, ndr) può avere senso solo se si considera la definizione per quella che è (…) infatti, Hayek stesso enuncia, molto brevemente, quel che noi consideriamo e descriviamo come “i veri principi della giustizia sociale”, un concetto che, se compreso, può essere universalmente accettato come tale». Papa Francesco ha l’occasione di rinnovare l’antica tradizione della giustizia sociale e, in questo modo, spostare l’attenzione dalla redistribuzione alla costruzione di un ordine sociale che sia efficace nell’emancipare i poveri. Rispettare la proprietà privata, promuovere una moneta solida, combattere la corruzione, eliminare il capitalismo colluso con lo Stato, il protezionismo e altre cause di profonde ingiustizie sociali che si ripercuotono soprattutto sui poveri, è il percorso verso una società realmente libera e giusta.

*Alejandro A. Chafuen è presidente della Atlas Economic Research Foundation. Questo articolo è stato pubblicato in lingua inglese sul numero di Forbes del 20 marzo 2013.