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SLITTA LA SENTENZA

Il tribunale svela la sua maschera di morte

Slitta la sentenza sul piccolo Charlie Gard. Ieri udienza fiume a tratti drammatica. Con l'esperto americano che ha sostenuto la tesi della terapia. E l'ospedale contro. In mezzo il dolore dei genitori. 

Vita e bioetica 14_07_2017

Più passano i giorni e più viene giù la maschera di coloro che intendono dare la morte al piccolo Charlie Gard. “Non ha nessuna qualità di vita e nessuna reale possibilità di qualità di vita”. Così recita un documento consegnato dal Great Ormond Street Hospital durante l’udienza di ieri presso l’Alta Corte di Londra, chiamata a valutare le nuove evidenze di cui si parla nel protocollo sperimentale predisposto da sette esperti di patologie mitocondriali, coordinati dal Bambin Gesù. Nessuna decisione definitiva è stata ancora presa e le parti si ritroveranno oggi alle 14 (le 15 in Italia) per una seduta interlocutoria in cui si fisserà una prossima riunione multidisciplinare che avrà luogo, secondo il giudice Nicholas Francis, “nel giro di giorni”.

Ma l’udienza fiume di ieri, che si è protratta per otto ore al lordo della pausa pranzo e di qualche altra breve interruzione, conferma l’abisso morale in cui è precipitata la nostra civiltà, la quale si è ridotta a disputare in un’aula di giustizia se la circonferenza cranica di un bambino bisognoso di cure sia due centimetri in più o in meno: e, da un’informazione come questa, fa dipendere una sentenza che potrà essere di vita o di morte. Da sacra qual è, la vita è perciò diventata un bene a disposizione dell’arbitrio umano, secondo sottigliezze mediche e giuridiche che potranno colpire chiunque.  

Andiamo alla cronaca spicciola dell’udienza. Due i punti più dibattuti: lo stato dello sviluppo cerebrale di Charlie e l’efficacia del trattamento sperimentale. La seduta è entrata nel vivo con l’intervento in videoconferenza di un dottore americano (mentre non c’è stato modo di ascoltare l’esperto italiano), tra i firmatari del protocollo internazionale e sul cui nome permane al momento l’obbligo della riservatezza, nonostante alcuni giornalisti abbiano fatto notare che la sua identità è già nota grazie alla stampa statunitense. È lui a essersi offerto di tentare il trattamento sperimentale sul bimbo inglese e possiamo dire che si tratta di un professore di neurologia, indicato come un luminare nel suo campo.

Riguardo al cervello, l’esperto ha spiegato che sulla base dei report del Gosh “non vedo segni di danno cerebrale strutturale. Potrebbe essere una disfunzione”. Non è affatto certo, insomma, il danno cerebrale irreversibile di cui parla l’ospedale londinese (“nessuno può dirlo”, ha detto il medico).

Riguardo al possibile funzionamento della terapia, il dottore americano ha detto che “le possibilità di successo sono almeno del 10%”. Ha ricordato che le prove sono state fatte finora su una patologia mitocondriale (TK2) diversa da quella che ha colpito Charlie (RRM2B), ma ritiene che ci sia “abbastanza somiglianza” perché possa funzionare con il bambino, ribadendo poi che non c’è il tempo per una sperimentazione sui topi perché richiederebbe almeno uno-due anni. In particolare, il trattamento ha comportato fin qui probabilità di significativo miglioramento della forza muscolare tra l’11% e il 55% per pazienti con ventilazione assistita; per cinque pazienti su nove è stato possibile ridurre il numero di ore di ventilazione e uno di loro ha potuto addirittura farne a meno. L’esperto ha confermato che il farmaco a base di deossinucleotidi è in grado di superare la barriera emato-encefalica: “C’è una base razionale per aspettarsi che le cellule cerebrali di Charlie migliorino grazie al trattamento”. Il giudice Nicholas Francis ha allora chiesto l’entità dello sviluppo cerebrale che potrà avere Charlie e il neurologo ha risposto che si aspetta “un piccolo ma significativo miglioramento”. Alla domanda se fosse disponibile a una trasferta a Londra per visitarlo, ha risposto di sì, chiarendo però che un esame clinico non gli consentirà di valutare quanta funzionalità cerebrale è recuperabile: “Il solo modo è tentare la terapia”, ha spiegato.

Il luminare americano non si può certo considerare un pro-life, se pensiamo che ieri ha ribadito la sua idea secondo cui senza funzione cerebrale “non è vita umana”, anche questa figlia della pericolosa svalutazione che la vita umana sta subendo oggi. Ma per il resto ha contribuito a smontare le altre ragioni di falsa compassione con le quali il Gosh – sostenuto dal tutore del bambino e fin qui dai giudici – motiva la sua richiesta di interrompere la ventilazione: ha detto cioè che quest’ultima non dovrebbe causare a Charlie danni di lungo periodo, né il bimbo subirà alcun danno dal trattamento (in precedenza l’avvocato della famiglia, Grant Armstrong, aveva affermato che il più grave effetto collaterale sarebbe la diarrea); ha spiegato che dall’elettroencefalogramma e dalle risonanze magnetiche non si può dedurre alcuna prova della presunta sofferenza che starebbe provando il piccolo; e ha chiarito  di aver avuto le nuove prove sul trattamento solo a metà aprile e di non averle incluse nella documentazione valutata dalla Corte d’Appello a maggio.

Katie Gollop e Victoria Butler-Cole, che rappresentano rispettivamente gli interessi del Gosh e del tutore legale di Charlie, hanno provato a mettere in difficoltà il dottore americano per orientare il giudice Francis a confermare la sentenza dell’11 aprile, che avrebbe come conseguenza la morte per soffocamento del bimbo. Anche ieri, in tribunale, è stata cioè una battaglia tra due opposte visioni. Se fosse un film, sarebbe anche divertente assistere a una battaglia legale così, dove degli avvocati di grido - uno che lotta per la vita di Charlie, e due per la sua morte - incalzano un esperto neurologo, cercando ognuno di convincere il giudice a prendere una determinata decisione. Mentre tutto questo avveniva, i corrispondenti inglesi che hanno potuto assistere dal vivo all'udienza raccontavano di una mamma Connie ora agitata, ora speranzosa, ora in lacrime (poco prima della fine dell’udienza); di un papà Chris ora arrabbiato, perché il giudice aveva appena riportato male delle sue parole, ora pieno di fiducia per le affermazioni del dottore americano, che gli facevano stringere la scimmietta preferita di Charlie.

Se fosse un film, sarebbe un bel passatempo. Solo che ieri, per l'ennesima volta negli ultimi tre mesi, non si è trattato affatto di un passatempo, non era una fiction: un tribunale è stato chiamato a giudicare se un bambino malato ha diritto di vivere. E un ospedale ha discettato sulla “qualità della vita” del bambino. Chi oggi sta rimanendo indifferente o addirittura sta chiedendo che Charlie venga lasciato morire, mentre ancora crede di vivere in una società moralmente avanzata, dovrebbe spiegare che differenza c’è tra il concetto di “qualità di vita” di cui si parla oggi e il famigerato T4, il programma di eutanasia nazista in cui si era messa nero su bianco l’idea delle “vite indegne di essere vissute”, che comprendeva le persone affette da malattie genetiche inguaribili e i portatori di handicap. Idea che a sua volta si basava sulle prime teorie eugenetiche del “diritto alla morte”. Dove sta, esattamente, la differenza? La storia, purtroppo, non ha insegnato nulla.