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CONTINENTE NERO

Il tribalismo è vivo e continua a provocare morti

Nella Libia meridionale, una scimmia che ha strappato il velo a una ragazza ha provocato una faida con decine di vittime. In Uganda i regni pre-coloniali fanno la guerra al governo. Nel Congo le tribù scatenano guerre di dazi anche sui bruchi commestibili. Il tribalismo è vivo e continua a lottare contro tutti.

Esteri 01_12_2016
Charles Wesley Mumbere

A metà novembre a Sabha, città della Libia sudoccidentale centro del contrabbando di emigranti clandestini e di armi, la scimmietta di un negoziante ha tolto a una ragazzina, per strada, l’hijab, il velo islamico che copre testa e spalle delle donne. Forse l’ha anche graffiata e morsicata quando lei, spaventata, ha reagito. Tanto è bastato. I famigliari della bambina, per vendetta, hanno aggredito e ucciso la bestiola, il suo proprietario e due amici che erano con lui in quel momento. Ne è nato uno scontro armato che ha coinvolto centinaia di persone, una faida durata giorni. Nei combattimenti sono stati usati persino razzi, mortai e altre armi pesanti. Il bilancio ancora provvisorio è di oltre 20 morti e 50 feriti. 

In Uganda i regni precoloniali sopravvivono, ma ridotti a mere “istituzioni culturali”. I sovrani vorrebbero più potere e i loro “sudditi” li sostengono. Ne nascono tensioni con il governo centrale. Il 26 novembre, le guardie di Charles Wesley Mumbere, re del regno di Rwenzururu, hanno attaccato la stazione di polizia di Kasese, la sua città. Le forze dell’ordine hanno poi preso d’assalto il palazzo reale dove le guardie si erano ritirate. Negli scontri durati due giorni sono state uccise almeno 62 persone, tra cui 14 agenti di polizia e 41 guardie reali. Il 27 novembre re Mumbere è stato arrestato e portato nella capitale Kampala con l’accusa di aver nascosto i propri soldati in fuga. Il sovrano nega ogni responsabilità per quanto è accaduto. Ma c’è motivo di dubitare delle sue parole. Secondo il portavoce del governo Shaban Bantariza, sulle montagne del Rwenzori l’esercito reale ha degli accampamenti nei quali vengono addestrati i soldati e dai cui partono le spedizioni contro sedi governative. 

Nella Repubblica Democratica del Congo, invece, almeno 30 persone, inclusi dei bambini, sono morte, colpite da frecce avvelenate, quando il loro villaggio, Muswaki, nella regione del Tanganyika, è stato attaccato il 21 novembre scorso. È da oltre un mese che si verificano scontri armati nella regione. Tutto ha origine dalla decisione di imporre un dazio sulla vendita dei bruchi commestibili che i pigmei Twa, una delle ultime popolazioni dedite alla caccia e raccolta, portano ai mercati locali dove dei commercianti li acquistano per poi venderli nella capitale Kinshasa dove sono considerati una prelibatezza. Già 16 persone sono state uccise a ottobre quando i Twa si sono ribellati alla nuova imposta. 

Uccidere, morire per il dispetto di una scimmia, per un re senza potere, per una tassa contestata. Ogni giorno in Africa si verificano stragi per motivi altrettanto incomprensibili, inconcepibili. Ma in realtà dietro queste cause scatenanti c’è un clima generale, persistente di diffidenza e ostilità, creato dall’appartenenza etnica, da una identità costruita da secoli per esclusione e avversione che genera diffidenza, intolleranza: in altre parole il tribalismo, forma estrema di razzismo.   

A Sahba il proprietario della scimmietta dispettosa e i suoi amici erano dei Guedadfa (lo stesso clan del colonnello Gheddafi) mentre la famiglia offesa appartiene al clan Awlad Suleiman. Da tanti anni, e soprattutto dall’inizio della guerra civile nel 2011, i rapporti tra i due clan, molto potenti in città, sono a dir poco tesi e non è la prima volta che la situazione degenera.

Sono tribali anche le motivazioni dei sudditi di re Mumbere. I Bakongo, la sua tribù, sono da sempre ai ferri corti con i Batoro, l’etnia dominante nella regione, che vanta un regno di origini molto più antiche. Nel 2009 il presidente Museveni ha riconosciuto il regno Rwenzururu dei Bakongo, ma le tensioni con i Batoro sono continuate. I sudditi di re Mumbere reclamano quindi la secessione dall’Uganda. Tra febbraio e marzo più di 50 persone sono morte in scontri tra forze dell’ordine e milizie reali.  

Nella Repubblica Democratica del Congo a imporre il dazio sui bruchi sono stati i Luba, un’etnia Bantu con cui i Twa, relegati in foresta, ai margini della vita economica e sociale, sono in conflitto da sempre. I Luba li disprezzano, li considerano esseri inferiori. Negli ultimi tre anni gli scontri armati, innescati da motivi diversi l’ultimo dei quali la tassa sui bruchi, hanno provocato la morte di centinaia di persone. 

Il tribalismo è stato e rimane uno dei principali ostacoli allo sviluppo dell’Africa, insieme alla corruzione e alla stregoneria. Merita ricordare a questo proposito le parole di Papa Benedetto XVI, in occasione del suo viaggio in Angola, nel 2009. A Luanda, la capitale, celebrando la messa nella parrocchia di Sao Paolo, affidò al clero la missione di convertire chi crede nella stregoneria e il giorno successivo, durante la messa celebrata sulla spianata di Cimangola, sempre a Luanda, descrisse con queste parole il dramma africano: “Pensiamo al flagello della guerra, ai frutti feroci del tribalismo e delle rivalità etniche, alla cupidigia che corrompe il cuore dell’uomo, riduce in schiavitù gli uomini e priva le generazioni future delle risorse di cui hanno bisogno per creare una società più solidale e più giusta”.  

Nell’accogliere centinaia di migliaia di emigranti africani, la preoccupazione in Italia e in altri stati verte sulla possibilità di integrarli nell’economia e nella società occidentali. Non si pensa ai problemi di integrazione, convivenza, dialogo tra le etnie e i clan a cui gli africani immigrati appartengono. Ma è un grosso sbaglio.