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GRAN BRETAGNA

Il tardo risveglio di Blair sul pericolo islamico

Lungo discorso di Tony Blair sul pericolo di islamizzazione, nel Medio Oriente e anche in Europa. Ma la sua stessa Faith Foundation risulterebbe infiltrata da integralisti islamici, membri dei Fratelli Musulmani.

Esteri 24_04_2014
Tony Blair

Tony Blair si è risvegliato. Dopo un lungo letargo mediatico, l’ex premier laburista britannico (a capo del governo di Londra dal 1997 al 2007), ieri ha pronunciato un discorso, tenuto alla sede londinese di Bloomberg, sui pericoli dell’islam radicale e della cecità occidentale, ispirando i governi democratici all’azione. «Negli ultimi 40-50 anni – ha detto Blair – c’è stato un incessante flusso di finanziamenti, proselitismo, organizzazione e divulgazione dal Medio Oriente, per promuovere una visione della religione mentalmente ristretta e pericolosa. Sfortunatamente sembriamo ciechi di fronte all’immenso impatto globale che questa predicazione ha avuto e sta avendo tuttora». Il pericolo riguarda soprattutto il Medio Oriente, in cui «le popolazioni spesso devono affrontare una scelta fra un governo autoritario che è almeno tollerante sulla religione e il rischio che, rovesciando un governo impopolare, si finisca sotto una semi-teocrazia intollerante». Ma il pericolo, sottolinea lo stesso premier, riguarda anche l’Europa, dove «la popolazione musulmana ha raggiunto i 40 milioni di individui ed è in crescita. I Fratelli Musulmani e altre organizzazioni sono sempre più attive e agiscono senza troppi controlli o restrizioni. Le recenti controversie sulle scuole di Birmingham (e simili situazioni in Francia) danno origine a preoccupazioni crescenti sulla penetrazione islamica nelle nostre società».

È però curioso che, il 13 aprile scorso, il quotidiano britannico Telegraph abbia dato la notizia che la stessa Faith Foundation dell’ex premier sia infiltrata da Fratelli Musulmani. Ora sarebbe sotto attenta osservazione da parte dei servizi segreti di Sua Maestà, nell'ambito dell'inchiesta sull'islam radicale voluta da David Cameron. Viene contestata la presenza di Khudr Al-Shatti e Mustafa Ceric, secondo un'indagine del Global Muslim Brotherhood Daily Watch (un’organizzazione che monitora gli sviluppi della Fratellanza da 13 anni). Il primo è membro del Movimento Costituzionale del Kuwait, un partito affiliato alla Fratellanza, inoltre avrebbe legami con gruppi estremisti palestinesi. E nelle sue dichiarazioni pubbliche, specie in arabo e pronunciate in Kuwait, non lascia adito a dubbi sulla sua visione del mondo («Israele è Male e noi non possiamo coesistere con il Male»). Mustafa Ceric, invece, è un bosniaco musulmano, che avrebbe contatti con la Fratellanza tramite il Consiglio Europeo per la Fatwa e la Ricerca. Questi sospetti sono sintomatici di quanto ambiguo sia il rapporto fra un'insospettabile fondazione che promuove il dialogo interreligioso, quale è la fondazione di Tony Blair, e la variegata galassia dell’estremismo islamico. Ma è anche indicativo della difficoltà che l’ex premier britannico ha sempre avuto nell’identificare il pericolo dei Fratelli Musulmani e delle altre organizzazioni che promuovono un islam radicale.

Se Blair punta il dito sulla minaccia di islamizzazione, infatti, è sotto il suo governo che è maturata una vera e propria giustizia parallela musulmana basata sul leggi coraniche. È stato il suo immediato successore laburista Gordon Brown, infatti, ad autorizzare le corti islamiche per negoziare arbitrati all’interno della comunità musulmana e giudicare (di fatto) su casi inerenti il diritto di famiglia. Negli ultimi tempi questo processo è andato oltre, ammettendo addirittura principi della legge coranica nei tribunali britannici.

Ieri Tony Blair ha definito le guerre nel Medio Oriente come «una lotta titanica in corso in tutta la regione, fra coloro che vogliono abbracciare un mondo moderno – politicamente, socialmente ed economicamente moderno – e coloro che, invece, vogliono creare una politica della differenza e dell’esclusivismo religioso. Questa è la battaglia. Questo è l’elemento distorsivo. Questo è ciò che rende l’intervento (occidentale, ndr) così doloroso e il non-intervento altrettanto doloroso. Questo è ciò che rende così difficile il processo di evoluzione politica. Questo è ciò che rende duro il terreno in cui la democrazia dovrebbe mettere le sue radici». Segue un’analisi dettagliata delle varie crisi in corso nel Medio Oriente e relative proposte di soluzione: Egitto, Siria, Libia, Tunisia, Yemen, Iraq e Afghanistan. In tutti i casi Tony Blair suggerisce interventi, a volte sfidando anche i luoghi comuni della diplomazia. Per l’Egitto, ad esempio, contrariamente a Barack Obama, insiste nel suo appoggio al governo militare contro i Fratelli Musulmani. Sulla Siria, Blair sostiene che Bashar al Assad debba essere coinvolto in un governo di transizione. Sulla Libia parla esplicitamente di “macello”, di cui noi siamo responsabili: abbiamo rotto l’equilibrio pre-esistente, ma non ci siamo mai occupati del Paese post-guerra.

Anche qui, però, mancano un paio di cose. Prima di tutto: se i Fratelli Musulmani sono diventati così forti negli ultimi 10 anni, lo si deve prima di tutto alla politica promossa da Stati Uniti (Condoleezza Rice) e Gran Bretagna (Tony Blair) volta a sdoganarli politicamente. Nelle prime elezioni di Gaza, furono proprio Usa e Gran Bretagna a convincere Israele ad ammettere anche Hamas (branca palestinese della Fratellanza) a competere e vincere. Con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti: 8 anni di conflitto con lo Stato ebraico. Furono sempre Usa e Gran Bretagna a convincere Hosni Mubarak ad aprire alla Fratellanza in Egitto: nove anni dopo è tuttora una mina vagante. Quando Blair parla di interventismo, a cosa si riferisce? In Siria torna a proporre una “No-Fly Zone” contro Assad, assicurandosi che “le armi non finiscano nelle mani degli estremisti”. Ma la No-Fly Zone, che dovrebbe essere costituita per “persuadere” Assad a gestire un governo di transizione, significherebbe, nel mondo reale, un regalo ad Al Qaeda e movimenti affini, che già dominano, sul terreno, il fronte della ribellione.

Se per l'Egitto la linea proposta da Blair è l’unica realista e possibile (sostegno al governo militare), per riportare la sicurezza in Libia occorrerebbe una spedizione militare completa, come in Iraq e in Afghanistan, non solo un programma di addestramento per truppe locali. Chi se la sente di imbarcarsi in un’altra missione di pace infinita, costellata da lutti e delusioni? E proprio a proposito dei precedenti in Iraq e in Afghanistan, entrambi hanno preso avvio proprio quando era Tony Blair alla testa del governo britannico. Come mai i due conflitti non sono ancora finiti, in Iraq si continua a morire (e i cristiani locali sono ridotti al lumicino) dal 2003 e in Afghanistan si continua a combattere contro gli stessi Talebani dal 2001? Evidentemente c’è qualcosa che non ha funzionato. Troppo poca presenza militare, incomprensione della situazione sul terreno o alleati inaffidabili in loco. O tutte e tre le cose messe assieme. Blair non può negare la sua responsabilità in merito.