Il sogno tradito di M.L. King
50 anni fa lo storico discorso: ma il suo era un sogno di uguaglianza nei diritti, mentre dopo di lui è stata perseguita una strategia di "discriminazione positiva". Così è nata la separazione degli Afroamericani dagli altri. E oggi sono proprio loro i più razzisti.
Cinquant’anni dopo lo storico discorso di Martin Luther King il 28 agosto 1963, “I have a dream” (io ho un sogno), si raccolgono i frutti amari di un’emancipazione dei neri che non c’è mai stata.
Per capirlo è meglio soffermarsi su alcune cifre che parlano da sole.
Il tasso di disoccupazione dei neri è il più alto in assoluto rispetto a quello di tutte le altre etnie statunitensi: il 15,9% degli Afroamericani è disoccupato, rispetto al 14,6% dei nativi americani (“indiani” e nativi di Alaska e Hawaii), all’11,5% degli ispano-americani, al 7,2% dei bianchi e al 7% degli asiatici. Ma anche fra quei neri che sono occupati, lo scenario non è un granché, considerando che solo lo 0,8% degli imprenditori sono afroamericani, contro un 95,8% di bianchi. Il settore pubblico è il maggior datore di lavoro dei neri. Il 21,2% dei lavoratori neri è impiegato nel settore pubblico (contro il 16,3% di tutte le altre etnie). Solo l’8% è nel business aziendale, il 10,6% è nel settore manifatturiero, il 12,6% nel commercio al dettaglio, il 18,5% impiegato in sanità e istruzione, dunque in altri posti para-pubblici.
E le cifre sulla criminalità sono ancora più allarmanti. Dal 1980 al 2008, il numero di aggressioni commesse da Afroamericani è 8 volte superiore rispetto a quello delle violenze commesse dai bianchi. Pur essendo meno del 15% della popolazione, i neri d’America hanno commesso più della metà (il 52,5%) dei delitti, sempre fra il 1980 e il 2008.
Un progressista, vedendo queste cifre, giungerebbe alla conclusione che negli Usa c’è ancora razzismo. Sì, c’è. Ma alla rovescia. A colpo d’occhio, per chiunque vada negli Usa, la comunità nera appare più chiusa delle altre: mentre si vedono ovunque gruppi multi-etnici di studenti e lavoratori formati da bianchi, asiatici e latino-americani, i neri paiono frequentarsi solo fra loro. Un sondaggio Rasmussen, pubblicato proprio questa estate, conferma questa impressione. Rivela come il 31% degli stessi Afroamericani ritenga la propria etnia la più razzista in assoluto, contro un 24% che attribuisce il maggior razzismo ancora ai bianchi. Visti dall’esterno, gli Afroamericani sono considerati i più razzisti dal 38% dei bianchi, contro un magro 10% che vede ancora nel razzismo bianco il peggior pericolo.
Perché il sogno di King è stato realizzato alla rovescia? Martin Luther King, nel suo celeberrimo discorso, affermava: «Ho ancora un sogno. Un sogno profondamente radicato nel sogno americano. Ho un sogno che, un giorno, questa nazione si leverà in piedi e vivrà fino in fondo il senso autentico del suo credo: “noi riteniamo queste verità autoevidenti, che tutti gli uomini sono stati creati uguali”». Quello di Martin Luther King era un sogno di eguaglianza nel diritto, che è la base del sistema liberale occidentale. Se tutti sono stati creati uguali, gli individui «non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per il contenuto delle loro idee».
Le politiche di emancipazione che sono state messe in atto dopo la morte di Martin Luther King hanno invece cercato di realizzare un altro tipo di eguaglianza: quella delle opportunità e del benessere. A partire dalle politiche dell’amministrazione democratica di Lyndon Johnson, negli anni ’60, basate sul principio di “affirmative action”, si è scientemente perseguita una strategia di “discriminazione positiva”. I neri non sono diventati eguali: dopo l’emancipazione e la fine della segregazione razziale negli Stati del Sud, sono stati beneficiari di politiche sociali, sussidi statali, privilegi e “quote nere” nelle assunzioni. I progressisti americani, negando il significato profondamente religioso del principio “tutti gli uomini sono creati uguali”, hanno sperimentato nuove forme di eguaglianza, cercando di costruire una società di uguali nel benessere, non solo nei diritti.
Come tutti gli apprendisti stregoni della pianificazione sociale, hanno ottenuto il contrario di quel che avevano progettato. Beneficiari di sussidi sociali, gli Afroamericani hanno trovato più conveniente stare a casa piuttosto che cercare un lavoro. Privilegiati nelle assunzioni dei posti pubblici, si sono riversati nella burocrazia, il settore meno produttivo d’America. I sussidi per i figli delle famiglie afro-americane hanno finito per sfasciare le famiglie stesse. Testimonianze drammatiche, come quelle contenute nel romanzo “Push” di Ramona “Sapphire” Lofton, ci mostrano realtà agghiaccianti, di figlie violentate dai padri per “produrre” più bambini, dunque sussidi.
Il razzismo nero viene di conseguenza. Quando la tua politica mira ad ottenere più sussidi e privilegi, la tua diventa una lotta contro le altre etnie per la spartizione della torta pubblica. La questione etnica è entrata prepotentemente nella scena americana, che pure si fondava e si fonda tuttora sul principio del “melting pot”. Le dichiarazioni e le politiche ufficiali delle amministrazioni statunitensi non hanno certo contribuito a risolvere il problema.
Il caso Zimmerman è l’esempio più recente: George Zimmerman, vigilantes latino-americano, ha sparato a un diciassettenne nero, Trayvon Martin. Dopo un anno di processo, la giuria ha assolto Zimmerman: le prove dimostrano che la sua era legittima difesa, ha sparato per salvarsi. Non era lui l’aggressore. Nonostante tutto, i manifestanti dei movimenti anti-razzisti hanno occupato Times Square a New York e alimentato tafferugli in tante altre città. Reazione di Obama? «Potevo essere io Trayvon Martin, 35 anni fa». Quando si guarda al colore della pelle, prima ancora di distinguere fra aggredito e aggressore, c’è qualcosa che non funziona. Di sicuro non si rispetta il sogno di Martin Luther King, secondo cui non si deve essere giudicati per il colore della propria pelle, ma per il contenuto delle proprie idee.